Festival di Venezia (28 Agosto-7 Settembre 2024): Don’t cry, Butterfly di Durong Dieu Linh (Settimana internazionale della critica- Gran Premio IWONDERFULL)

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Raccontare una storia intergenerazionale di donne per rappresentare le insoddisfazioni e le utopie di una società di cui poco sappiamo come quella vietnamita, è un modo per accedere attraverso un sentimento di empatia e simpatia, che non esclude l’amarezza esistenziale e le discrepanze classiste; c’è oltretutto un tocco di immaginazione e di fantasia in questo Don’t cry, Butterfly di Durong Dieu Linh dove la condizione femminile risulta particolarmente più ricettiva nell’entrare in contatto con l’alterità, la differenza, il bizzarro del quotidiano; lo straordinario sotto la superficie di un palazzo e di un appartamento afoso e decadente. È infatti questo lo scenario nel quale vivono Tam, donna di mezza età che lavora con rigore e attenzione in una location per matrimoni (con il codazzo un po’ kitsch di video, foto in posa ed appariscenti abiti nuziali) e Ha, sua figlia, una ragazza che cerca nella meditazione un punto di fuga più che una statica quiete, al contrario inquieta com’è nel voler uscire fuori i limiti della mura marce della propria casa, del quartiere, di una città che, allargando lo sguardo, assomiglia così tanto alle metropoli in disfacimento dei sud del mondo (e pensando alla storia del Vietnam come colonizzato/contaminato dalla cultura occidentale in particolare di matrice angloamericana, una simile immagine derivativa ne risulta la sconfortante conseguenza).

Il già evidente disequilibrio della situazione di partenza viene spezzato dalla scoperta in presa diretta , durante la trasmissione tv di una partita di calcio, che il marito di Tam ha un’amante più giovane, gettando quest’ultima in uno sconforto e in una passività non più indeterminati, ma legati a filo doppio all’inganno e al rifiuto. Proprio lei che di professione invita le coppie di novelli sposi a mettersi in posa  per lasciare quell’impronta digitale di perpetua ed evanescente felicità. Inizialmente, da donna abituata a subire l’umiliazione, perfino quella pubblica, in silenzio, Tam cerca di aggiustare le cose rivolgendosi ad una sorta di maga che le propina dei rituali per far tornare a sé il consorte già piuttosto distante emotivamente e fisicamente. Questo stato di sospensione/interruzione viene però trasposto e trasfigurato anche su un piano che, pur rifacendosi alla tradizione spiritistica delle culture orientali legata agli elementi naturali, agli oggetti e alle abitazioni, si traduce in un accesso simbolico al soddisfacimento di un bisogno di libertà e di riscatto, il risveglio di una primavera dei sensi e della fantasia. La casa di Tam e Ha sembra infatti essere infestata da una sorta di presenza che si manifesta solo a loro due attraverso una forma liquida, un’infiltrazione acquatica tra le intercapedini del soffitto che esploderà in un’irrefrenabile alluvione dei locali di quell’edificio malconcio, rivelandosi fluida porta d’ingresso per un mondo altro, all’interno del quale essere se stesse in pienezza/bellezza. Questo spunto così sviluppato ricorda in particolare un memorabile film di Tsai Ming-liang, The Hole,  dove non una crepa, ma un buco appunto metteva in comunicazione piccoli, pulsanti esseri umani invasi da un’ apocalisse acquatica e da una pandemia virale, creando un transito tra l’onirismo di un sogno musical condiviso e la realtà, la concretezza, la fisicità di un contatto di braccia e mani che riempiono uno spazio non solo proiettato o virtuale.

Con le sue digressioni che abbracciano la spiritualità messa in scena al di fuori di un’altisonante tempio, e nell’interno delle quattro muro di una stanza carica di medie e mediocri luci spente, in grade di accendersi e di fiammeggiare tra le movenze delle danze esorcizzanti di una sacerdotessa, la regista vietnamita riprende l’ottica poetica e al tempo stesso de-mistificante di Tsai, alterna un certo realismo del dettaglio- si percepisce il caldo soffocante dei luoghi chiusi e circoscritti- a momenti surreali colmi d’amore e di possibilità per le sue donne alle prese ciascuna con una diversa qualità d’infelicità. La trasformazione di Tam, da bruco in farfalla, sembra starle particolarmente a cuore e passa pure per uno strumento obsoleto e abbastanza vintage come il karaoke, in alcune sequenze nelle quali viene trasportata e baciata dalle parole di una canzone old style e dall’illuminazione di un locale accompagnato dal calore e l’abbraccio di altre donne sole, fino al laico altare di una vita diversa. Tornando all’assunto iniziale, si è condotti per mano a provare simpatia ed empatia, pur con l’evidente limite della forma evanescente e della sostanza esile a cui si sta assistendo. Le sfumature rabbiose di Ha e il suo impeto giovanile-che dovrebbe fare da contraltare alla dolenza/inerzia materna- sono meno centrate e convincenti, anche se il rapporto esclusivo e compensativo, l’attaccamento carnale del dormire nello stesso letto e del volersi salvare insieme è sufficientemente delineato. L’impressione è che  al di sotto della patina da commedia rosa virata nel fantastico con inserti orrorifici ci sia tanta carne non messa propriamente a fuoco, come veder scorrere in sottofondo, in un fondale marino o quello di un acquario (altra non casuale immagine che torna nel film), spunti, suggestioni, riflessioni lasciate andare per intrattenere, costruire scenette eccentriche o buffe, introdurre personaggi che fanno colore e folklore. Così il vestito e il rossetto entrambi rosso fuoco di cui si ammanta ad un certo punto la rediviva Tam sono un’altra figura che lascia intuire la profondità di una simile sbocciatura, ma resta un po’ in apparenza. E l’abisso subacqueo in cui annega e riemerge Ha, la manifestazione della forza e della potenza dello spirito che l’ha inseguita e forse perseguitata insieme alla madre, sembra essere sproporzionato rispetto al tono più intimo e introspettivo del racconto. Sproporzionato, ma forse necessario al mostrare che oltre le acque non ci sono mostri, fantasmi o terribili scenari di perdita e solitudine. Capovolgendo il segno “maledetto” delle acque ( chi ricorda l’horror giapponese Dark Water di Hideo Nakata? ) e entrando in risonanza con il finale dell’ultimo Hirokazu Kore’eda  (L’innocenza), Ha e Tam si ritrovano in un floreale paesaggio primaverile dove le farfalle non piangono e sono talmente tante da inondare l’aria di armonia e delicatezza, contro il caos del ritmo urbano, delle demolizioni e delle cementificazioni. Una scena decorativa e a tratti naif, una soggettiva libera indiretta di un sogno lungo giornate tutte uguali, intervallato dal risveglio, abbastanza criptico, di un nuovo inizio; un tempo durante il quale a una smorfia di tristezza subentra l’accudente sorriso di un abbraccio che culla una neonata.


Don’t cry, Butterfly (Mu’a tren canh bu’o’m); Regia e sceneggiatura: Duong Dieu Lnh; fotografia: Ngo Minh Nghia; montaggio: Daniel Hui; musica: Diego Ayala Raffallo; interpreti: Le Tu Oahn, Nguyen Nam Linh, Le Vu Long, Bui Thac Phong; produzione: Tan Si En ( Momo Film Co), Wilfredo C. Manalang (FUSEE), Nguyen Mai Ka (Kalei Films); origine: Vietnam/ Singapore/ Filippine/Indonesia 2024; durata: 97 minuti.

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