Ci vuole molto coraggio a girare un documentario su una delle più controverse filmmaker della storia del cinema, ovvero su Leni Riefenstahl (1902-2003), la regista che (incassato dai gerarchi il diniego di Fritz Lang che subito dopo lasciò la Germania) ricevette da Hitler e da Goebbels , il ministro della cultura e della propaganda del partito nazista, il compito di curare, sul piano cinematografico, tutto il settore, appunto, propagandistico, del partito. Celebre attrice di “Bergfilme” e dal 1932 autrice di quello che può essere considerato il coronamento di questa breve stagione del cinema tedesco a cavallo fra gli anni ’20 e gli anni ’30, fra il muto e il sonoro, ovvero Das blaue Licht (La bella maledetta) Riefenstahl accettò senza esitazione la proposta di Hitler e di Goebbels dando vita, fra il 1933 e il 1939, ad almeno a cinque film certamente di straordinario valore estetico ma al contempo di ineludibile impostazione propagandistica: Der Sieg des Glaubens (La vittoria della fede), sul primo congresso nazista all’indomani della presa del potere di Hitler, quello del 1933, l’analogo e ben più celebre Der Triumph des Willens (Il trionfo della volontà) sul congresso del 1934, il terzo film (1935) dedicato a un congresso nazista, ovvero Tag der Freiheit, (Il giorno della libertà) il suo film forse più celebre, ovvero la pellicola in due parti sulle Olimpiadi berlinesi del 1936, notoriamente intitolato Olympia, fino ad arrivare al film, senza titolo, del 1939 dedicato all’invasione della Polonia delle truppe tedesche, prodotto dalla stessa Riefenstahl che si organizza addirittura in un “Sonderfilmtrupp Riefenstahl”. Dopodiché – giusto per concludere – questa rapida rassegna la creatività di Leni Riefenstahl sembrerebbe arrestarsi (gli stessi film degli anni ’30 potranno essere mostrati in Germania Federale solo a patto che siano preceduti da un’introduzione storico-culturale, in Germania Democratica mai), se si tiene conto che dalla fine della guerra in poi si limita, nel 1954, a pubblicare un film, girato in realtà anch’esso negli anni ’40 e anch’esso foriero di polemiche e di strascichi giudiziari (per l’utilizzo di comparse di etnia sinti e rom) intitolato Tiefland, e poi, a un passo dalla morte, un documentario subacqueo intitolato Impressionen unter Wasser (Impressioni sott’acqua).
Di documentari su Leni Riefenstahl ne sono stati girati tanti nel corso dei decenni, ma questo è il primo che può avvalersi dello straordinario lascito che dal 2016, l’anno in cui muore Horst Kettner, il compagno e seguace (di quarant’anni più giovane) di Riefenstahl, è stato donato alla Deutsche Kinemathek di Berlino e a cui regia e produzione hanno potuto attingere. La casa di produzione si chiama Vincent Productions; ne è titolare una celeberrima giornalista tedesca che si chiama Sandra Maischberger (1966), che ancora nel 2002 ebbe a intervistare la regista, proprio in occasione del suo centesimo compleanno. Il regista è invece Andres Veiel (1959), uno fra i più acclamati documentaristi tedeschi, e in pochissimi, rari casi anche autore di film di finzione. Fra i suoi notevolissimi documentari basterà ricordare almeno uno splendido documentario sulla RAF, che mette in parallelo la vita del terrorista Wolfgang Grams con quella dell’industriale Alfred Herrhausen, vittima illustre di un commando terrorista, intitolato Black Box BRD (2001) oppure l’ottimo documentario su Joseph Beuys intitolato appunto Beuys (2017).
Tre sono le domande che mi sono posto accingendomi alla visione del documentario. La prima: che cos’hanno trovato di nuovo Veiel e i suoi collaboratori (data la mole del materiale può trattarsi solo di un lavoro collettivo) nel lascito di Riefenstahl? La seconda: perché un uomo chiaramente di sinistra come Veiel (lo dimostra tutta la sua produzione) decide di trascorrere così tanto tempo a raccontare la vita e l’opera di Leni Riefenstahl, un argomento a tratti decisamente respingente, ripugnante? La terza: perché un documentario sulla regista tedesca oggi? Mi pare che il lavoro di Veiel fornisca soddisfacenti risposte, fra loro connesse, a tutti e tre i quesiti.
Rispetto a tutto quanto si sapeva e si era visto in opere consimili, il documentario di Veiel fornisce delucidazioni, a tratti sorprendenti, sulla agghiacciante ossessività con la quale la regista ha conservato tutto ma proprio tutto, cose che in un lascito di un/una regista uno si aspetta, carteggi con personaggi più o meno famosi, ritagli di giornale, fotografie, sceneggiature, scene tagliate etc., ma – ed è questo il dato più sorprendente – una quantità impressionante di audiocassette in cui Riefenstahl aveva registrato tutte le conversazioni telefoniche avute con seguaci, ammiratori, difensori che la contattavano di continuo, in particolare all’indomani delle sue non infrequenti presenze televisive, tutte più o meno rispondenti, da parte dei giornalisti e/o ospiti di turno, al tentativo di indurla a un qualche atto di revisione, resipiscenza, condanna di quanto da lei prodotto negli anni del Dodicennio Nero e tutte più o meno culminanti con scatti d’ira della diretta interessata, nient’affatto disposta a farsi mettere sulla graticola. È come se Riefenstahl avesse accumulato un dossier pressoché infinito volto ad archiviare non solo materiale probatorio teso a scagionarla, ma anche una sorta di legittimazione assoluta da parte di numerosi esponenti della Nazione tedesca, che vedevano in lei un oggetto di identificazione contro le continue accuse di collusione, un materiale che, se ancora ce ne fosse stato bisogno, dimostra all’altezza degli anni ’60, degli anni’70 e oltre continuassero a permanere nostalgie, revanscismi filo e post-nazisti.
Riguardo alla seconda questione – perché Veiel ha passato così tanto tempo a occuparsi di un oggetto così rivoltante come Riefensthal, nei confronti del quale non sembra mai e poi mai esser scattata la minima empatia – mi pare che la risposta più plausibile sia proprio da rintracciarsi nel fatto che, per quanto sorprendente e démodé possa sembrare, questo è e vuole essere un documentario di denuncia, un documentario che spietatamente vuol mettere il dito in tutte le piaghe purulente sul piano etico che la regista, a distanza di quasi un secolo dal decennio in cui è stata maggiormente attiva, è ancora in grado di far sgorgare. A riprova di ciò si veda il fatto che nel film non sono, comparativamente, moltissime le scene tratte dai film della regista, quasi a voler lasciare intuire che la sua maestria tecnica, le sue capacità estetiche si conoscono e nessuno le mette in dubbio, mentre invece si discute, non si finisce mai di discutere come abbia potuto un talento del genere essersi messo al servizio di un’ideologia così disumana, fin da subito così disumana e non solo quando si saprà del progetto sistematico di sterminio. Le risposte fornite nelle varie interviste da Riefenstahl sono sempre le stesse: io volevo fare film, li avrei fatti anche per Stalin o per Roosevelt, io non sapevo nulla, anche quando, a più riprese, il film dimostra in modo incontrovertibile quando e quanto lei sapesse.
La terza e ultima questione – perché proprio oggi un documentario sulla Riefenstahl? – è intimamente connessa con le precedenti, e in questo caso la questione etica e quella estetica sono fortemente intrecciate. Le opere di propaganda di Leni Riefenstahl rappresentano un paradigma e un archetipo per tanti versi insuperato di rappresentazione, di messa in scena del potere attraverso un uso della macchina da presa volto a creare una dialettica visiva fra il capo, accentratore e carismatico e la massa, schierata, ordinata e adorante. Tutto ciò che è venuto dopo, anche molto dopo, riprende e varia l’estetica di Riefenstahl – anche ai giorni nostri, e pensiamo, solo per fare un esempio, alla messa in scena delle parate di Putin. Sul piano etico-politico, mai come adesso è necessario fare un film su Leni Riefenstahl, quasi più, se possibile, sulla Riefenstahl degli anni ’50, ’60 e ’70 che ha totalmente obliterato, rimosso, negato quel che ha fatto, che non sembra mai minimamente attraversata dal dubbio circa la liceità della sua connivenza col Nazismo e sull’interscambiabilità della committenza. Sul piano ideologico Riefenstahl è e resta una fascista, come dimostra la parte finale del film che si concentra sul tempo trascorso dalla regista e dal marito in Sudan a fotografare il popolo dei Nuba (migliaia di metri di pellicola impressionata che riprende la donna ormai anziana che con fare autoritario, si atteggia ad autentica padrona), ritratto con il medesimo gesto estetizzante ed escludente con cui ritraeva gli atleti a Berlino. Riefenstahl non avrebbe mai fatto un documentario, che so io, sulle Paralimpiadi, su corpi lesionati. Se si guarda questo documentario, pensando alle derive autoritarie neo- post-fasciste in Europa, o senza andare troppo lontano, ai risultati di pochi giorni fa delle elezioni in Sassonia e in Turingia, si capisce che mai come adesso c’è bisogno di non tacere nulla, di delucidare, spiegare, in tedesco si dice “aufklären” e Aufklärung è la parola tedesca per Illuminismo.
Riefenstahl – Regia e sceneggiatura: Andres Veiel; fotografia: Toby Cornish; montaggio: Stephan Krumbiegel, Olaf Voigtländer, Alfredo Castro; produzione: Vincent Productions; origine: Germania, 2024; durata: 115 minuti.