Festival di Locarno 2024 – Fiore Mio: “Alpinisti non per conquistare vette, ma per sentirsi ridimensionati” – Intervista con Arturo Squinobal 

Fiore Mio, il docufilm d’esordio di Paolo Cognetti, è stato presentato in anteprima come evento di pre-apertura del Locarno Film Festival 77 e arriverà nelle sale italiane il 25, 26, 27 novembre 2024. Per l’occasione della proiezione a Locarno abbiamo intervistato il noto alpinista italiano Arturo Squinobal, una delle persone che incontreremo durante il viaggio filmico di Cognetti.

Domanda È la prima volta che viene a Locarno?
Arturo Squinobal: No, quarant’anni fa venivo con mio fratello Oreste a consegnare i mobili, che costruivamo con la nostra falegnameria. È però la prima volta, che vengo al Festival e sono rimasto impressionato e commosso, quando ho visto mia figlia Marta sull’enorme schermo di Piazza Grande.

Avevate già visto il film ultimato o è stata un’anteprima anche per voi?
È stata una prima visione anche per noi, e io e mia moglie siamo stati molto contenti di averlo visto in questa occasione. Inoltre, una frase che ha detto Paolo sul film, mi ha molto colpito: «Questo non è un film su come salvare le montagne, ma su come le montagne potrebbero salvare noi».

Nel libro Due Montanari. Arturo e Oreste Squinobal dalle Alpi all’Himalaya (Il Corbaccio 2019) di Maria Teresa Cometto, avevamo letto la postfazione di Paolo Cognetti, ma com’è nata l’idea di partecipare al suo film?
Mi ricordo di Paolo fin da quando era un bambino con i capelli rossi. Mio fratello Renzo organizzava dei corsi di arrampicata per i ragazzi. Lui era già un acuto osservatore all’epoca. Oltre a guardare tutto ciò, che facevamo in falegnameria, copiava il nostro sistema di “camminata dondolante da montanaro”. È stato qualcosa di naturale, visto che è girato anche al nostro rifugio.

Il film inizia con Cognetti, che si ritrova senz’acqua. Capita anche al vostro rifugio di avere lo stesso problema?
L’Orestes Hütte, il nostro rifugio sopra Grassoney, funziona grazie all’energia pulita dell’acqua. Infatti, quando è inverno e ghiaccia, la potenza diminuisce a 5 kWh, ma poi c’è un sistema per farla ripartire se si blocca. Grazie alla tecnologia moderna, mio figlio può gestire la nostra centrale idroelettrica da remoto. Anche la teleferica, creata per portare i rifornimenti al rifugio, funziona grazie all’acqua e all’elettricità pulita. Fin da piccolo mi districavo con l’energia, creando oggetti all’alpeggio, che per accendere una luce funzionavano grazie alla forza dell’acqua, una turbina di legno e un magnete.

Prima del film è stato fatto un appello per aiutare le Valli del locarnese colpite dal grave maltempo di fine giugno. Come affrontate le esondazioni e altre catastrofi naturali?
In effetti, quando qui è stata colpita la Valle Maggia, da noi, a Cogne e Cervinia, ci sono stati danni ingenti, ma non al rifugio, che è più in alto. Marta, nel film, spiega a Paolo Cognetti che in quanto rifugista non si sente la custode della montagna, siccome la natura farà il suo corso. Inoltre, ha fatto la scelta, che all’inizio non condividevo, di creare un rifugio con un ristorante vegano/vegetariano, per rispettare la natura che ci circonda, e attirando così turisti stranieri.
 
A livello tecnico, fare le riprese così ad alta quota è stato complicato?
Non direi. Eravamo fuori stagione, perciò abbiamo aperto il rifugio apposta per la troupe e le riprese sono state fatte nei dintorni. Nel film Paolo è partito dalla sua casa in Val d’Ayas, ma si può arrivare più vicino, con un’ora di cammino. Inoltre, pochi giorni fa abbiamo creato un ponte con un’unica trave per raggiungere il rifugio più facilmente.

Nel film lei è stato interpellato come guida alpina. Com’è passato dall’alpeggio all’alpinismo?
In realtà, il nonno ci deve aver passato qualche cromosoma da montanaro, anche se non ci portava mai in montagna. Con mio fratello Oreste abbiamo iniziato a fare le prime avventure invernali, per provare le nostre capacità, e capire fin dove si potesse arrivare. Seguivamo le ascensioni di Reinhold Messner e di altri nostri coetanei. Il passo per diventare guida alpina è stato breve, perché in realtà è grazie alla gente del posto, che possono esserci le spedizioni, altrimenti gli alpinisti non andrebbero lontano. I contadini, le guide, gli abitanti che portavano gerle da 30 kg in spalla e a piedi nudi, senza attrezzature adatte alla montagna, sono tutte persone eccezionali e umili, ed è grazie a loro che abbiamo potuto prendere parte a più spedizioni, inclusa quella al Kangchendzonga 8598 m (Himalaya), la terza vetta più alta della terra, dove Oreste è arrivato in vetta, senza l’ausilio del respiratore (ossigeno), realizzando la prima salita italiana.

Nel film Cognetti fa notare la differenza su come gli stranieri e i “Walser”, gli abitanti del canton Vallese vedano diversamente il Monte Rosa, Lei come guida cosa ne pensa?
In effetti, in titsch  (n.d.r.: idioma Walser simile allo svizzero tedesco) il Monte Rosa è chiamato “die Gletscher”, ovvero “il ghiacciaio”. Quindi, fin da piccoli abbiamo imparato ad associarlo a qualcosa di pericoloso, e gli abitanti del posto che sono saliti in cima si possono contare sulle dita di una mano. È da 61 anni che faccio la guida alpina per le persone che arrivano da lontano. Ovviamente, bisogna partire conoscendo le proprie condizioni fisiche e quelle della persona di cui siamo responsabili, ma sono ancora attivo, perché la montagna mi attreae, e lo spirito di far arrivare in vetta chi accompagno è rimasto intatto.

Fiore Mio mostra come tutti i protagonisti si sentano parte della montagna e della natura, che li circonda. A lei cosa ha fatto pensare questo viaggio?
Alle volte, mi pare che l’alpinismo moderno sia dedito alla conquista della vetta,… alcuni riescono anche a raggiungere la cima in elicottero, ma per me è diverso. Da quando facevo le prime ascese invernali con mio fratello, lo scopo non è mai stato la conquista, perché per me arrivare in vetta è un’esperienza unica per ridimensionarmi.

 

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