PerSo 2023 ( Perugia, 30 settembre- 8 ottobre): Masterclass e proiezione di tre film di Pietro Marcello

Non si può dare niente per scontato o per acquisito quando ci si confronta con quell’organismo vivente e cangiante che è il cinema di Pietro Marcello, a cui ora il” PerSo- Perugia social film”  dedica lo spazio di una masterclass e la proiezione di tre sue opere: Il passaggio della linea, La bocca del lupo e Le vele scarlatte. Marcello è uno di quei cineasti che, negli ultimi vent’anni ( il primo cortometraggio, Carta, è del 2003), ha aperto le possibilità della visione e del racconto in un momento di transizione del cinema italiano, quando i confini tra documento e finzione, realismo e trasfigurazione, la struggente disintegrazione dell’immagine analogica e gli innesti suggestivi di un digitale post immaginario si intersecavano e sovrapponevano fino a generare altri mondi abitabili dallo sguardo. Sguardo che non si limita però ad una pur eccezionale (nel senso letterale di eccezione rispetto alla convenzione del già visto) esperienza estetica,  ma che comprende  in un orizzonte esteso ed avvolgente, la riattivazione di una memoria emotiva che tocca i sensi , l’esigenza di una presenza e di un attenzione rispetto a un tempo che è sempre qui ed ora, ma anche altrove. Ed è un racconto fatto tutto di direzioni, di voci e di volti quello da cui si muove e che muove Il passaggio della linea il primo documentario del 2007: con in calce una citazione da Georges Simenon («Tre volte ho attraversato la linea di confine, la prima volta di frodo, con l’aiuto di un contrabbandiere, in qualche modo, almeno una volta legittimamente, sicuramente sono stato uno dei rarissimi che sono tornati di spontanea volontà al punto di partenza») dal quale riprende anche il titolo originale di un suo romanzo , Le passage de la ligne,  (tradotto in italiano nell’alquanto fuorviante La linea della fortuna) segue gli spostamenti clandestini e notturni di un’umanità sulla soglia di una marginalità  linguistica, sociale e culturale  che popola i treni espressi a lunga percorrenza nei loro viaggi dal tramonto all’alba, alla ricerca di un posto nel mondo, o semplicemente di uno spazio dove poter raccontare la propria storia attraverso le proprie parole. La tensione di esistenze che ancora vibrano di una sopravvissuta, combattente identità nella polarità di un nord-sud in apparizione e sparizione tra le andate e i ritorni delle ipnotiche soggettive dei treni case/rifugi/ zone franche di vite che dismettono lo status di uno stigma sociale e acquistano la loro voce, nel solco di una coscienza che è dinamico fluire e perpetuo ricordo.

Ci sono già, in questo inizio, alcuni protomi o più apertamente dichiarazioni d’intenti per una poetica che arriva per ispirazione e non per ricerca. Tra tutti, il passaggio di una linea che riguarda le immagini anche nell’espressione sonora, una totalità dell’esperienza in ogni traccia semantica: è presente infatti  un momento dove c’è una sovrapposizione indistinta delle voci dei passeggeri che provengono dal treno in corsa. La restituzione di una dimensione anche collettiva di tanti piccoli frammenti individuali , accumunati dal taglio di una precarietà e di un disagio, ma anche dalla rivendicazione, nel mostrare la faccia attraversata e scavata dal vissuto soggettivo, di una dignità e di una forza oltre i limiti dell’idea preconcetta che giudica e condanna (in particolare un passeggero che, proveniente dal problematico quartiere napoletano di Scampia, racconta di essere stato sospettato a prescindere di essere  un potenziale ladro o assassino).

 

 

 

 

 

Da quell’intrecciarsi di storie minori distese nell’orizzontalità  del binario ferroviario, Marcello passa successivamente a mettere a fuoco una sola storia , innestandola ancora una volta nel respiro di un racconto più grande che travalica la figura umana e ne include il paesaggio, la topografia, l’ architettura, lo spiritus loci urbano e marino. È Genova, città portuale con il suo portato di antichità e mitologia, ad essere il ventre umido e crepuscolare che fa da contesto e contenitore a La bocca del lupo (2009): un microcosmo fatto sempre di uno spazio liminale e periferico,  di un sottobosco brulicante e quotidiano dove si materializza l’incontro e l’innamoramento tra Enzo e Mary, la sua compagna transessuale: una relazione nel corso del tempo che comincia dal non luogo per definizione, il carcere, nel quale si conoscono e poi si separano scontando entrambi una pena detentiva ma di diversa durata. Ed è qui che viene introdotto, con una libertà e una creatività al di fuori dei rigidi steccati non tanto tra un genere e l’altro, quanto proprio tra un materiale e l’altro (in una concezione fisica e ancorata del film, quasi reperto archeologico portato a nuova vita) le immagini dell’ archivio, anzi degli archivi (privati e pubblici su Genova, ma anche l’epistolario tra Enzo ancora in carcere e Mary)  nella loro ricchezza di possibilità evocative, narrative, poetiche. Genova è fantasmatica e prossima, ancestrale e contemporanea, frontale e labirintica; un caleidoscopio di frame che  richiede un processo di ricostruzione e di ridefinizione, lo stesso in fondo compiuto dallo stesso Enzo, anche qui in voce/volto, di ritorno dalla sua Mary: la durata di un long take frontale, dove possono raccontare in alternanza  questa lunga storia d’amore, prima che tutti e due vengano rinchiusi, oppure liberati, nella eco di una vertigine marina, non tanto origine, quanto risacca, eterno ritorno sulle sponde di una riva quando “niente è cambiato, anche se tutto è diverso” (citando una canzone di Cristina Donà che si intitola Universo e che parla proprio del rapporto tra i minimi (per)corsi mutabili  e i massimi sistemi statici).

Luca Marinelli in Martin Eden

Questo fiancheggiare sempre più fittamente le coste di un racconto che è rappresentazione e messa in scena  spinge poi Marcello, e con lui la dicotomia ormai sterile documentario-finzione, a rivolgersi alla fonte diretta, alla letteratura nelle cadenze in primis del romanzo di formazione. Ma il Martin Eden (2019) da Jack London non è pedissequamente  adattato alla lettera, ma trasportato nello spirito delle rivolte socialiste dei primi del novecento con uno scenario reinventato che annulla completamente le distinzioni non solo spaziali, ma anche temporali, tra set finti e veri,  restituendo ancora una volta all’archivio (in questo caso su una città già immaginata e rappresentata in maniera ipertrofica come Napoli) il valore costitutivo, prima ancora che aggiunto,  di uno sguardo inedito. La costituzione e poi la disgregazione in itinere di una coscienza politica ed e di una tensione esistenziale  che è anche la prospettiva su una realtà che non può più essere inquadrata da una sola forma e in un solo formato.

Da qui seguirà il posizionamento speculare e altrettanto spiazzante di Juliette , protagonista dell’altra, fino a questo momento, trasposizione cinematografica realizzata da Marcello, Le vele scarlatte: prendendo quota (letteralmente vista la presenza, oltre alla consueta dimensione marittima, di aerei che precipitano e che ripartono) dal racconto neoromantico del russo Alexandr Grind e spostando lo stesso apparato produttivo in un altro polo linguistico e culturale ( il film è di produzione francese), il regista napoletano straborda ulteriormente fuori dagli argini di qualsiasi struttura: la fusione tra archivio e immaginario, e il compenetrarsi dove  l’uno nutre ed incrementar l’altro si fanno proiezione intima delle aspirazioni e dei desideri di  Juliette, giovane donna vessata dalla violenza maschile di un villaggio rurale sulle ceneri post belliche della prima guerra.

Juliette Jouan ne Le vele scarlatte

Un avvento e una fuga, auspicati per acqua e per cielo, che l’archivio/memoria, definitivamente sdoganato dalla sua polverosa fissità di strumento documentale, trasforma in una possibilità di soggettivazione e nella sostanza di un sogno (laddove in Martin Eden l’utopia era crollata sotto il peso delle aspettative di un ingombrante “fuori” amplificato esasperatamente dall’ambizione egoica e individualista).

Ed ecco che quando Marcello sembra averci fatto giungere ad un punto,  lo sguardo si alza ancora, e meraviglia e sgomento ci attanagliano. Come dicevamo all’inizio, nulla di scontato o acquisito, perché ogni approdo è una deriva di qualche altro orizzonte, e ogni immagine è il contro campo di qualche altra visione.

Che sia rimpianto o sconferma del nostro bisogno di cercare qualcosa di bello e perduto.

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