Shikun di Amos Gitai (Festival di Berlino – Berlinale Special)

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Partiamo da qui, per approssimarci a questo ultimo lavoro del grande regista israeliano Amos Gitai.

«Shikun, in ebraico, significa “case popolari”, un edificio in cui vivere. La parola deriva da un verbo che significa “riparare”, “dare rifugio”. E il film dà rifugio a persone che, per motivi diversi, hanno bisogno di ripararsi dalla minaccia dei rinoceronti. Mi piace il suono della parola, so che la maggior parte delle persone non saprà cosa significa, ma questo non mi dà fastidio, anzi. È qualcosa di astratto che mi piace, che è nello spirito del progetto».

Così Gitai in un’intervista durante le appena scorse giornate del Festival di Berlino, dove il film è stato presentato nella sessione “Berlinale Special”. Al lettore va subito chiarito che questi “rinoceronti” di cui si parla (e si intuisce nel film) sono figure/maschere prese a prestito e ispirate alla quasi omonima opera teatrale di Ionesco (Il rinoceronte, 1959).Ma torniamo al titolo: Shikun. Come non fermarsi un attimo, appunto su questa parola, ancora una volta sola a indicare un’opera di Gitai (si pensi alla sua bellissima triade, pure in sequenza cronologica, Kadosh, 1999 – Kippur, 2000 – Eden, 2001, a cavallo, tra l’altro, del passaggio tra i due millenni). È vero, è già bello il suono del termine, che lo fa immediatamente un film di Gitai. Che vuol dire dunque casa, meglio condominio di abitazioni spartane (un tempo, in Italia, si usava anche l’espressione “case di cooperative”). E chissà perché la mente, per un attimo, va alle stupende immagini del primo lungometraggio dell’altrettanto apprezzato regista turco Nuri Bilge Ceylan: Kasaba (1997, presentato anche questo alla Berlinale). Ma chi si aspetterebbe un film sui nuovi indigenti, su chi porta avanti con fatica la giornata e non vede l’ora di rincasare per provare a prendere sonno, non è sulla buona strada. Qui l’edificio in questione, fatto dei suoi lunghi corridoi che portano alle tante porte (percorrendo un solo piano) dei singoli appartamenti come anche dei suoi garage-labirinto (pieni di meandri e zone d’ombra), sta in termini squisitamente spaziali, proprio nel senso teatrale. Infatti, la macchina da presa è spesso fissa, altrimenti compie movimenti (per lo più lenti) in forma di piano-sequenza e di carrellate geometriche. Da qui il senso anche di claustrofobia che s’intende destinare allo spettatore, ma soprattutto la dimensione di universalità (o, se si vuole, di utopia) a proposito di ciò che si vuole narrare, ovvero una comunità di persone, che parla lingue diverse e che porta con sé i tratti di culture diverse.

Tutti sono alle prese da un lato con le concordanze e le disarmonie possibili di cui sono fatti gli incontri multietnici e dall’altro con un tentativo, che accomuna tutti, di resistenza al potere costituito (sublimato, appunto, dai rinoceronti) che è in sostanza (questo aspetto s’immagina, ma non si vede) sotto forma di totalitarismo, cioè, tendente a una sorta di tipica omologazione di massa, soprattutto per quello che concerne i costumi e le abitudini sociali. I personaggi, a cominciare da quello interpretato da Irène Jacob (che emozione rivederla, ancora una volta, sullo schermo e ritrovarla in questo film!), è come se fossero impegnati, tutti insieme contemporaneamente, in alieni soliloqui interiori espressi ad alta voce. Anche quando le circostanze permettono a loro, quasi casualmente, d’incontrarsi, rimangono legati esclusivamente ai loro discorsi. L’occhio di Gitai non fa che seguirli, mostrandoli in tutta la loro plasticità, nei loro gesti più eloquenti, molto drammatici. In fondo potrebbero rendere l’idea dell’idiota, nel senso meramente etimologico dell’espressione. Ovvero l’individuo spoglio delle cariche pubbliche, che resta al di qua di ogni tipo d’ideologia, insomma che sta a sé. Ecco: ma fino a quando questo rimanere non imbrigliati tra le trame dei discorsi retorici propri delle “magnifiche sorti e progressive” è possibile? Come poter non essere vinti dai rinoceronti, come non “entrare in banca”?

Le vicissitudini di questo microcosmo sembrano per Gitai essere allegoriche della nostra contemporaneità. Vorranno o potranno i condomini resistere alle lusinghe esterne e restare fedeli a sé stessi, o saranno tentati di cedere e dunque negoziare compromessi che metteranno a repentaglio la loro libertà? Il finale, che ci convince molto, non verrà certamente qui svelato. Si può dire che è bellissimo non solo nel modo in cui viene girato (soprattutto nelle scene in soggettiva del personaggio di Jacob), ma anche per il portato narrativo che implica.

Usciamo dalla sala dopo aver assaporato il rinnovato fascino di quasi tutto il cinema di Gitai. Quello di andare alla scoperta di tempi e spazi che in fondo ci esprimono visioni da verità superiori. Ecco: questo fanno i film del regista israeliano. Mentre filma, scopre (come dimenticare il bellissimo Ana Arabia, 2013). E ciò non è nascosto da trovate a effetto o chissà quali scelte scenografiche per stupire. È nel semplice che si trova il puro e l’essenziale. E così veniamo guidati e condotti per mano a incontrare, “come in uno specchio”, noi stessi.  Da vedere, assolutamente.


Shikun – Regia e sceneggiatura: Amos Gitai; fotografia: Eric Gautier; montaggio: Yuval Orr, Simon Birman; musica: Alexsey Kochetkov,  Louis Sclavis; scenografia: Arie Weissinterpreti: Irène Jacob, Hana Laslo, Yael Abecassis, Bahira Ablassi, Menashe Noy, Pini Mittelman, Attalah Tannous, Minas Qarawny, Naama Preis; produzione: AGAV Films, Recorded Picture Company, CDP, Elefant Films, Ventre Studio, United King Films, GAD Fiction, Intereurop, Free Studios; produttori: Amos Gitai, Laurent Truchot, Ilan Moskovitch, Catherine Dussart, Shuki Friedman; origine: Israele/Francia/Svizzera/Brasile/Regno Unito,  2024; durata: 84 minuti.

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