Nel 2008 Viggo Mortensen partecipò alla Festa del cinema di Roma come protagonista di Appaloosa, asciutta rivisitazione post classica del western (in quanto espressione di un modo di sentire e di vedere oltre che di un genere), diretta da un altro attore e regista, Ed Harris, che possiede più di un’affinità e un’analogia -per temperamento, ruvidezza e una certa solidità espressiva – con l’interprete assurto prima a icona di un certo epico maschile come l’Aragorn della trilogia tolkeniana nella trasposizione di Peter Jackson e poi a più ambigui e tormentati personaggi grazie alla collaborazione con David Cronenberg ( in A History of Violence c’è, tra l’altro, un memorabile duello al sole proprio con Harris).
Per The Dead Don’t Hurt, sua seconda regia, dopo Falling-storia di un padre (2020), Mortensen ritorna a quei minimi comuni denominatori, una storia di frontiera, corruzione, ingiustizia e passione, e realizza un’opera che procede con un racconto in sottrazione, nel dispiegarsi del tempo con la cadenza di elissi e nel manifestarsi dello spazio attraverso la dialettica tra campo e fuori campo. E al centro c’è la questione a lui cara di una paternità che sembra aver perduto la sua connotazione di discendenza di sangue per acquisire il valore relazionale, affettivo e di cura – pur in un mondo filmato in assenza di pietas e giustizia – dentro un rapporto che si muove in direzione ostinata e contraria. Lo stesso Mortensen è Holger Olsen , un immigrato danese che, nella terra di mezzo di una pioneristica California, durante i tumultuosi e divisivi anni della guerra di secessione, cerca di costruire una propria appartenenza territoriale e identitaria assieme alla volitiva e indipendente Vivienne, proveniente dal Canada francese; una vibrante, giovane donna che segue il proprio istinto e la propria attrazione per quel fascinoso e silenzioso straniero ed estraniato come lei, tanto da rifiutare il più benestante e aristocratico pretendente di turno. Il loro ménage passa però dalla complicità e la seduzione iniziali, vissute in un libero gioco dei ruoli dov’è anche la ragazza a prendere l’iniziativa e a scegliere da quale parte stare, alla dura legge della sopravvivenza che ne spariglierà le carte e ne separerà le traiettorie: lui, spinto da un bisogno di emancipazione economica e dal voler suggellare il suo sentirsi cittadino americano, si arruola nell’esercito dell’Unione nordista; lei va a fare la cameriera nel saloon dell’adiacente cittadina già corrotta dagli affari intrecciati di banditi, politici e ufficiali, fino a rimanere vittima del vile e brutale figlio del co-proprietario di quel malfamato locale.
Questo intreccio non segue una linearità temporale interrotta dalla spaccatura del trauma (lo stupro subito da Vivienne) come a delimitare il territorio di una prima parte incentrata sulla quieta tenerezza di un idillio, anche piuttosto in progress e il deflagrare della seconda nei tratti di un congestionato mélo di figli illegittimi, rappresaglie sanguinose e laconiche vendette. Al contrario Mortensen, oltretutto autore della sceneggiatura e delle musiche, mette subito a disposizione dello spettatore tutti i piani del racconto, focalizzandosi in particolare proprio sulla figura di Vivienne: la vediamo, fin dall’inizio, morente nella malattia, vitale nell’innamoramento, orgogliosa nel rivendicare il proprio posto in un microcosmo di cowboy rozzi e predatori, madre coraggio di un figlio concepito nonostante le circostanze stigmatizzanti (a causa di quel compagno lontano), perfino bambina che sogna di emulare le imprese di Giovanna D’Arco. Una complessità e una centralità inusuali per l’archetipica struttura dei ruoli femminili nel racconto western, spostato altrimenti sull’accentuare nelle donne i tratti mascolini di accentramento di potere e di carisma (basti pensare a due capolavori assoluti come Johnny Guitar di Nicholas Ray e Rancho Notorious di Fritz Lang, nei quali predomina la statura di antesignane queen/queer di Joan Crawford e Marlene Dietrich). Interpretata dai tratti spigolosi capaci di addolcirsi in un sorriso e in uno sguardo intensi e luminosi della lussemburghese Vicky Krieps, Vivienne continua invece a portare su di se i segni di un maschile violento in forma diretta e indiretta. (Olsen l’abbandona in un ambiente ostile per andare a combattere in una guerra della quale al suo ritorno saprà dire solo “è stata lunga”). Mostrarne da subito l’intero processo di emancipazione, forzata sottomissione e infine di morte esprime dunque la volontà di Mortensen di non rendere la sua presenza funzionale alla progressione degli eventi, un pretesto per giustificare nel finale la battuta ad effetto contenuta nel titolo.
Semmai è lei ad essere il testo, il corpo e il cuore colmi di calore e di coraggio, sottratti all’arido e inaridito paesaggio dall’ ottusità di una decadente genia patriarcale – basti vedere la stupidità con la quale il rampollo del boss maneggia la pistola – alla quale Olsen, logorato dalla colpa della propria assenza, cerca di opporre la forza calma e paziente dell’amore verso il bimbo lasciatole da Vivienne, un sentimento sradicato dalle sue aspettative di identità e di appartenenza. I morti non soffrono, ma bisogna intendersi sulla distinzione tra chi sono i morti e chi sono i vivi: ci sono sequenze con cadaveri che vengono sepolti e bambini che vengono lavati e curati, individui sperduti nella loro esibizionistica, alcolica, sbilenca crudeltà e uomini dal tormento e dalla dolcezza interiori (ben tratteggiato il profilo del pianista del saloon che aiuta Vivienne durante gli anni di distanza da Olsen), in possesso di pudore e di perdono.
Un parterre di sopravvissuti che annunciano la fine, nella reiterazione di un comportamento sbagliato o virtuoso, di un microcosmo demodé rappresentato con raffinata e misurata eleganza figurativa e con la scelta di tenere la grande Storia (la guerra e i successivi mutamenti sociali ed economici ) fuori dal campo di una visione che è invece più intimista, arsa, crepuscolare, riflettente le conseguenze di un mondo in transizione e in trasformazione. È chiaro che ci si muove per la lunga durata-oltre due ore- sul filo del rasoio del dejavù, giunti alla fine e anche oltre di una caccia all’uomo che ha azzerato qualsiasi climax e resa dei conti ( si veda anche la recente ri-ascesa e ri-caduta del mito in Morte per un dollaro di Walter Hill). Ma il nucleo sincero e trasparente con il quale Mortensen ha messo in scena, formalmente e narrativamente, la comparsa e la scomparsa di un padre e di una madre, fanno di The Dead Don’t Hurt una piccola opera che tradisce le ambizioni di una poetica fuori dal tempo e rivela i limiti e le possibilità di un’ispirazione sincera.
In anteprima alla Festa di Roma 2024
In sala dal 24 ottobre 2024.
The Dead Don’t Hurt – I morti non soffrono (The Dead Don’t Hurt) – Regia e sceneggiatura : Viggo Mortensen; fotografia: Marcel Zyskind; montaggio: Peder Petersen; musiche: Viggo Mortensen; interpreti: Viggo Mortensen, Vicky Krieps, Danny Huston, Sonny McLeod, Garret Dillahunt, Ray McKinnon; produzione: Viggo Mortensen, Regina Solorzano, Jeremy Thomas; origine: Messico/Canada/ Danimarca, 2023; durata: 129 minuti; distribuzione: Movies Inspired.