C’è già tutto Florestano Vancini, dentro La Lunga notte del ’43: gioiello italiano che uscì domani, il 13 settembre del 1960, dopo essersi aggiudicato il premio (opera prima) alla Mostra di Venezia. Nei fotogrammi iniziali di questo esordio vigoroso, già maturo e per nulla invecchiato, quindi irreversibilmente graduato a classico nazionale, si abbracciano fermo immagine potenti e didascalie inequivocabili: pietre angolari del Novecento italiano parte uno. Sono lampi di quella grande Storia – il fascismo, Mussolini, la guerra – che anima, a volte mescolata ai sentimenti, le principali opere del cineasta ferrarese (vedi soprattutto Le stagioni del nostro amore, 1966).
Da questo breve incipit con eventi e date (lo ritroveremo anche in Il delitto Matteotti, 1973), comincia il dialogo appassionato tra cinema ed enormi accadimenti italiani: grandi nomi e principali crocevia nazionali da una parte, il melodramma tormentato dall’altra, a sua volta impregnato di Storia. L’amore tra Franco (Gabriele Ferzetti) e Anna (Belinda Lee) si muove infatti con angoscia e segretezza dentro il grande scenario pubblico, politico del film; è oppresso e alla lunga sconfitto dal clima di terrore e violenza che lo circonda. Vive e muore dentro l’equilibrio tra cronaca e racconto, anche grazie alla mediazione, al sostegno, al filtro prezioso, di una penna creatrice di immersività: quella di Giorgio Bassani, autore di Una notte del ’43, inserito nella raccolta Cinque storie ferraresi. È buona letteratura, con cui Vancini plasma liberamente, insieme ad Ennio De Concini e Pier Paolo Pasolini, una sceneggiatura dinamica e potente, madre di un’opera importante nella riflessione dei primi anni Sessanta cinematografici italiani, sul passato recente: leggasi filone storico resistenziale.
Già dalla finestra iniziale, quella dalla quale Pino Barillari (Enrico Maria Salerno), apre il campo teso di La lunga notte del ’43, si spalanca uno spazio denso narrativamente e storicamente nutriente. Egli è un uomo malato, silenziosamente tormentato, in rassegnato movimento domestico grazie a due ingombranti stampelle. È strumento attraverso il quale ci affacciamo su una Ferrara nebbiosa, autunnale e drammatica. Eppure, bellissima, per quelle sue forme eleganti esaltate dal bianco e nero pittorico di Carlo Di Palma. Siamo nel novembre del ’43, appunto, e gli aerei minacciano dall’alto la città. Quando cala il buio scendono il coprifuoco e il deserto umano sotto i porticati. I fascisti tagliano le strade notturne sui camion, animati da euforica violenza. Dalla finestra sul viale, che diventerà poi sull’orrore, sorge il close-up, il primo piano dell’autore verso un segmento circoscritto, eppure iper parlante, di grande storia italiana: l’eccidio del castello estense, del 15 novembre 1943. Quello nel quale vennero fucilati, nel cuore della notte e di Ferrara, undici italiani antifascisti. Vancini rilegge questo episodio tragico (che nel libro di Bassani viene spostato al 15 dicembre del ’43) per riflettere su un tema a lui caro: la memoria storica, meglio ancora la perdita di questa in poco tempo, dentro un’Italia rapidamente motorizzata e ipnotizzata dalla televisione e dalle canzonette. Come se la guerra e la dittatura, le persecuzioni e la sofferenza di un popolo, fossero state inghiottite in un buio stordente e spintonate lontano. Chissà dove.
Se per tutto il film, infatti, entriamo negli ultimi mesi dell’Italia fascista, quelli successivi all’armistizio dell’8 settembre, con la repubblica di Salò e il nuovo Partito fascista repubblicano, nel finale si salta con forza fino all’anno 1960: una sequenza contemporanea, sorprendente, estremamente significativa, chiude infatti La lunga notte del ’43. È quella in cui Franco, l’amante di Anna, a sua volta moglie infelice di Pino Barillari, torna in città dopo molti anni vissuti in Svizzera, dove fuggì per scampare all’eccidio nel quale morì suo padre, avvocato antifascista. Insieme a Franco ci sono sua moglie e suo figlio, con il quale, in francese, egli sbrigativamente commenta la pietra che ricorda le vittime di quella notte. Pochi istanti, accompagnati dalle note leggere della canzone Il barattolo di Gianni Meccia. Poche svogliate parole, non come avrebbe potuto e dovuto. Poi via, tutto sommato freddamente. Tutti e tre a bere qualcosa al bar di fronte, prima di ripartire per Roma. Franco, adesso solitario, si allontana dagli altri ed entra nella farmacia dove Anna lavorava, al piano terra del palazzo dal quale suo marito vide chiaramente chi fu ad aprire il fuoco sugli undici inermi contro il muro del castello. Ma non denunciò, rimase zitto. Di Anna nessuno sa nulla, il vento se l’è portata via, come la morte s’è portata via quel marito malato di un’infezione venerea, contratta durante la giovanile appartenenza al fascismo. È possibile, allora, leggere in lui, nella sua condizione, la simbologia di una borghesia fragile, contaminata dal regime e poi incapace di ribellarvisi, di usare la coscienza e la voce per denunciare i responsabili di quella strage. In testa ai quali c’è Carlo Aretusi, detto Sciagura, ben interpretato da Gino Cervi. È proprio lui che Franco incontra tornato al tavolo del bar. Ed è Aretusi, spavaldo, impunito, sgusciante da un manipolo di uomini che guarda la partita dell’Italia in Tv, a riconoscerlo. Franco, distratto, disinteressato a combattere per la giustizia e la memoria, scambia con Sciagura due chiacchiere di circostanza. Si stringono persino la mano come se nulla fosse accaduto, come se la morte del padre di Franco non fosse stata ordinata dall’uomo che oggi vivacchia serenamente a Ferrara. Addirittura, quando i tre si alzano per raggiungere l’auto, e sua moglie gli chiede chi fosse quell’uomo, Franco risponde così: «Era una specie di gerarca fascista. Ho saputo che durante la Repubblica di Salò, dopo che noi abbandonammo Ferrara, divenne una figura importante qui». Pochi attimi di silenzio e Franco aggiunge: «E’ un poveraccio, non credo che abbia mai fatto del male a qualcuno».
Ancora silenzio verbale, solo musica, mentre la macchina da presa di Vancini stringe sulla lapide degli undici «caduti per la libertà». L’opera di rimozione è completata; il valore di quel marmo è sminuito, svilito, annebbiato dal passaggio distratto di Franco e della sua famiglia, dal suo passo e dal suo sguardo, anche questi simbolicamente, rivolti altrove.
La lunga notte del ’43 – Regia: Florestano Vancini; sceneggiatura: Florestano Vancini, Ennio De Concini, Pier Paolo Pasolini; fotografia: Carlo di Palma; montaggio: Nino Baragli; musiche: Carlo Rustichelli; interpreti: Enrico Maria Salerno, Belinda Lee, Gabriele Ferzetti, Gino Cervi; produzione: Ajace Film, Euro international Film; origine: Italia, 1960; distribuzione: Euro international film. Data di uscita al cinema: 13 settembre 1960.