“On the road rimanendo in uno stesso luogo” – Intervista a Francesca Mazzoleni

L’Idroscalo di Ostia è l’ultimo triangolo di spazio abitabile alla foce del Tevere. Un luogo ben noto per fatti di cronaca legati alla delinquenza.  Da dove nasce la tua necessità o l’occasione di raccontare la storia di identità di questo territorio nel tuo Punta sacra (cfr. https://close-up.info/?s=Punta+Sacra)? Qual era il tuo legame individuale con questa terra e con i suoi abitanti prima ancora del tuo desiderio di girare un film riguardante questa precisa tematica?

Francesca Mazzoleni: La mia necessità nasce proprio dal fatto che si pensa ancora all’Idroscalo di Ostia semplicemente come un luogo di delinquenza, perché questa, per anni, era l’immagine che hanno avuto bisogno di trasmettere i media. Si tratta invece di un prezioso pezzo di storia della nostra città: l’ultima borgata autocostruita di Roma, dove da 60 anni vivono 500 famiglie, che se ne prendono cura e che vogliono rimanere e vivere in pace, ma più dignitosamente, nel luogo in cui sono cresciute. Spesso i più “deboli” si ritrovano ad avere meno possibilità di ascolto rispetto a classi più agiate, e subiscono decisioni prese dall’alto senza rispetto e possibilità di confronto.

Questa è stata la mia scintilla: è nato tutto da un profondo amore e da un moto di rabbia. Voglio credere ancora che il cinema possa avere una funzione nella vita reale, al di fuori dello schermo, che possa aiutare ad accorciare le distanze, a far nostre ingiustizie che apparentemente non ci appartengono e a immedesimarci in esseri umani che avremmo giudicato “lontani da noi”. A sentirci parte, in maniera più ampia, di un’unica comunità, come quella che ho avuto la fortuna di conoscere. In questi 8 anni di frequentazione in quei luoghi, ho visto famiglie rimarginare le ferite del proprio territorio con un’enorme spinta vitale e con dignità, attraverso feste, cerimonie, spirito di appartenenza e convivialità, e con un meraviglioso rispetto verso i valori immateriali dell’esistenza, laddove quei materiali sono meno presenti, e di conseguenza, spesso, anche meno importanti.

Sono stata fortunata ad aver conosciuto delle persone meravigliose e per questo motivo, proprio per abbattere un pregiudizio che perseguita l’Idroscalo di Ostia da decenni, ho voluto lavorare insieme a loro per poter condividere con un pubblico più ampio uno spunto di riflessione necessario che, partendo da piccolo lembo di terra, sta toccando festival e pubblico da ogni parte del mondo.

Il mondo femminile è centrale in Punta Sacra, dal momento che dipingi tre generazioni di donne. Uno dei personaggi che spicca maggiormente è sicuramente Franca Vannini, la cosiddetta Anna Magnani dell’Idroscalo. Cosa ti ha colpito, personalmente, di Lei?

Franca è una guerriera, con un cuore enorme e una grande capacità nel tenere unite le persone. L’ha fatto sempre con dignità, forza e autoironia. Da anni è a capo della Comunità Foce del Tevere e si è relazionata con le istituzioni per provare ad ottenere aiuti sul territorio. Ne ha fatte di battaglie. Quando nel 2010 sono arrivate le ruspe per abbattere le 35 case sulla Punta, lei era in prima linea con tutte le altre donne, un cordone al femminile a difesa dell’unico bene che avevano al mondo: la casa.

Le immagini sono incredibili. E Franca per me è una donna modello. Se andate all’idroscalo verso la Punta, in prima linea, trovate la sua casa che è sempre piena di gente, di curiosi, di fotografi, di giovani. Di sicuro vi offrirà un caffè. L’idea di fare questo viaggio insieme, questo racconto, è nata anche grazie a lei che un giorno mi disse: “certo, qui c’abbiamo troupe di cinema tutti i giorni, ci girano serie, film, le accogliamo e poi le vediamo sparire, ma la vita di chi abita qui, alla fine non la racconta nessuno…”. Così siamo partite con un comune obiettivo e ora abbiamo un legame per me preziosissimo.

Hai frequentato per ben otto anni la comunità protagonista del tuo film. Hai riscontrato delle difficoltà iniziali nell’approcciarti con essa e quali espedienti, a livello di regia, hai invece adottato per rendere la tua presenza meno “ingombrante” possibile durante la loro quotidianità? 

Sul set di Punta Sacra

Quando frequentavo la comunità, non avevo intenzione di farci un lavoro. Ci passavo del tempo perché mi piaceva. Spesso scattavo fotografie, andavo alle feste di Natale, cenavamo insieme, o passavamo giornate alla spiaggetta d’estate. Ho visto nascere una delle protagoniste, Stefania, che nel film ha 5 anni. Insomma, non ci sono state grandi difficoltà, se non il capire come raccontare la complessità di un territorio come appunto l’Idroscalo. Ovviamente ne ho raccontato una parte per il tutto, circa tre famiglie su 500, ci sono tantissime persone che mi hanno aperto le loro case e che mi hanno dato fiducia e ascolto, ma che non ho potuto inserire nel film per questioni di tempo, per rischio anche di superficialità e del finire a raccontare tanto ma in maniera superficiale. Ma Punta Sacra parla di tutti loro. Le riprese effettive sono durate solo 3 mesi ma il tempo pregresso è stato fondamentale, oltre al fatto che la troupe era composta da 4 persone, che ha aiutato molto nell’ ”invisibilità”.

Immagino che tu abbia “accumulato” molto materiale di girato. È stato difficoltoso operare una selezione per un documentario della durata di 96 min.?

La fase più lunga è stata quella del montaggio: 6 mesi complessi, stimolanti e sofferti. Con la montatrice Elisabetta Abrami, che ha fatto un bellissimo lavoro, abbiamo scritto da zero il film. Fino a un certo punto non sapevamo se questo documentario avrebbe visto la luce o no e che forma avrebbe avuto. Poi pian piano è iniziato a spuntare qualcosa, e ci ha emozionato: è stato un lavoro di ricerca puro, che accade raramente. I tagli son venuti pian piano: prima abbiamo creato le scene riscrivendole da take che duravano anche ore, e poi abbiamo capito quali blocchi sarebbero rimasti e quali no, e in quale ordine. Abbiamo seguito un flusso profondamente emotivo e lirico, a tratti guidato dalla follia e dalla libertà più totale.

Tecnicamente, con cosa avete girato?

Una BlackMagic Ursa.

Hai scelto di strutturare il film in capitoli. Tale espediente consente probabilmente di non fermarti in superficie ed esplorare attentamente il tessuto sociale del territorio, snocciolando al meglio i contenuti e, al tempo stesso, restituendo una certa continuità al racconto. Riflette una scelta a priori, o successiva, in fase di montaggio? Qual era, dunque, la tua intenzione?

Questa è stata una scelta fatta durante le ultime settimane di montaggio. Ci ha aiutato a mettere un po’ di ordine al caos. Punta Sacra seguiva già una narrazione a capitoli anche quando essi non c’erano. Trarne fuori i temi con dei titoli ci è sembrato un bel modo per dialogare con lo spettatore e guidarlo in quelli che per noi erano dei sottotesti presenti nelle scene, nei nuclei tematici che ci son serviti nell’ordinare la narrazione.

Inoltre abbiamo usato delle riprese con drone differenti per ogni capitolo: l’idea era quella di entrare nel microcosmo delle case e di uscirne con uno slancio dall’alto, per poi riatterrare in una storia diversa. Qualcuno ha detto che è come un on the road rimanendo in uno stesso luogo. Mi ci ritrovo molto.

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