Nella nostra bella e angusta Europa occidentale la guerra è sparita da tempo – almeno se pensiamo alle generazioni dei millennial, nate e cresciute in un continente da cui l’orrore sembra ormai bandito in eterno. Confinate dietro ad un teleschermo o, per essere più precisi, ridotte a fugaci brandelli virtuali, violenza e crudeltà vengono quotidianamente ripulite dalla tragica veridicità che ne contraddistingue l’essenza. Siamo convinti di aver sviluppato un filtro protettivo contro ciò che, in teoria, non ci riguarda. Pensiamo che una misteriosa entità chiamata Internet ci conferisca il superpotere di accendere e spegnere l’empatia quando più ci conviene. Errore. Si tratta di una truffa: quel fronte emotivo di cui non si vuole nemmeno sentir parlare si è semplicemente spostato di qualche linea d’aria. A ricordarcelo sono le voci di tredici fotoreporter, qui immortalati attraverso l’obiettivo di Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso. L’impresa che i due registi si propongono di compiere non è per niente facile, perché fotografia e cinema spesso finiscono per respingersi a vicenda. Se lo scatto dell’otturatore permette di elaborare un’esperienza in modo sincronico, immediato e perfino brutale nella sua concretezza, il cinema distende il campo visivo, dilatando l’attimo in linea orizzontale e creando una cronologia percettibile soltanto ad una certa distanza.
In prima linea riprende, in tal senso, l’assioma di Robert Capa secondo il quale l’efficacia di un’istantanea è direttamente proporzionale alla vicinanza tra il fotografo e il suo oggetto. E sì, è il caso di parlare di oggettività: incredibile ma vero, nell’era del digitale sarebbe ancora possibile rimanere leali al frammento di vita che intendiamo immortalare. Ciò richiede una buona dose di professionalità, ma anche di umanità – nel senso più ambiguo e sfaccettato che questa strana (talvolta abusatissima) parola può possedere. Le memorie dei protagonisti si muovono tutte sul filo di un dolore e di uno sgomento talmente interiorizzati da lasciare perplessi: eppure, il divario apparentemente incolmabile che si apre fra gli intervistatori e gli intervistati non fa che intensificare il ricordo – e, con esso, la sua evocazione fotografica. A riempire le eventuali lacune (se per caso ce ne fossero) sono gli scatti dei giornalisti, utilizzati dalla narrazione per glossare sé stessa. Il cinema aggiunge poco, si limita ad ampliare le immagini che a mano a mano s’affacciano alla mente dello spettatore, rendendo la visione fruibile anche alla sfera uditiva. Queste carrellate di fotogrammi parlano un linguaggio talmente lucido da non aver bisogno di alcuna parafrasi – semmai, è la figura in movimento che cerca di avvicinarsi alla loro schiettezza.
Se, per un breve momento, mettiamo in pausa il lungometraggio e andiamo a pescare qualche vecchio album di guerra, scopriamo che la fotografia (o meglio, quel tipo di fotografia), nonostante tutti i tornanti a cui il progresso tecnologico l’ha sottoposta, non è cambiata di una virgola. La lente restringe il campo, allarga l’occhio, e spesso provoca reazioni diametralmente discordi nell’animo di chi osserva: davanti ad un edificio in fiamme, ad un volto sfigurato, ad un inferno fatto di fosse e cadaveri non vogliamo guardare. Però vogliamo guardare. L’istantanea, per i nostri reporter, ci mette in contatto con la verità. Che non vorremmo conoscere. Ma che vogliamo conoscere. Per questa ragione, non c’è scatto che sia da considerarsi inopportuno, inutile, sovrabbondante – sconveniente può forse essere la pubblicazione e la riproduzione seriale della testimonianza, ma non vogliamo addentrarci nei meandri di una discussione che il fotografo professionista in primis ritiene marginale. L’importante è, appunto, portare a casa l’attimo.
Il racconto di Francesco Cito, Andreja Restek, Franco Pagetti, Massimo Sciacca, Arianna Pagani e dei loro colleghi si sposta di fronte in fronte e di generazione in generazione, toccando tempi e spazi uniti dalla comune e terribile esperienza del conflitto, della paura, della solitudine, della sofferenza – tutte parole vuote, udibili semmai attraverso lo sguardo pungente e ipersensibile che la fotocamera ci dona. Balsamo e Del Grosso non si limitano dunque a viaggiare fra la Palestina e la Jugoslavia, fra l’Afghanistan e la Siria, né intendono riempire il grande schermo con la retorica sovrabbondante di chi vuole trasmettere un’idea al posto della realtà dei fatti. Ed è, appunto, nei fatti che la cinepresa dei due autori ritorna, rinunciando a creare per documentare.
Dal 10 giugno 2021 in sala
Cast & Credits
In prima linea – Regia: : Matteo Balsamo, Francesco Del Grosso; sceneggiatura: Francesco Del Grosso; fotografia: Gianluca Sacchi; montaggio: Roberto Mariotti; musica: Paolo Fosso; interpreti: Isabel la Balena, Giorgio Bianchi, Ugo Lucio Borga, Francesco Cito, Pietro Masturzo, Gabriele Micalizzi, Arianna Pagani, Franco Pagetti, Sergio Ramazzotti, Andreja Restek, Massimo Sciacca, Livio Senigalliesi, Francesca Volpi; produzione: Giotto Production in collaborazione con Merry-Go-Sound; origine: Italia 2021; durata: 83’; distribuzione: Trent film.