Minuto 66, i pochi centimetri del ginocchio di Marko Arnautović salvano la nazionale da una probabile e ingloriosa eliminazione agli ottavi di finale Italia-Austria. Della preziosa articolazione tra femore e tibia, quella che può determinare in positivo o in negativo l’intera carriera di un giocatore, si era parlato e scritto in abbondanza e, per ironia della sorte, proprio quella parte anatomica ha consegnato ai patriottici cantori dell’inno di Mameli, una nuova occasione per rivelare, una volta di più, la pochezza di un ambiente che, ad esempio, considera la lotta contro l’omofobia e l’istigazione all’odio una semplice opinione con la quale si può essere o non essere d’accordo.
Inginocchiarsi o non inginocchiarsi? Domanda inutile, se non per chi crede nel potere della comunicazione, nella rappresentazione di un pensiero che di per sé, nelle teste dei protagonisti, è assente, è privo di sostanza. A che serve vedere dei giocatori che si schierano a comando per un ideale verso il quale non provano alcuna attrattiva? In tutti questi anni, qualcuno ha mai osato pensare di convincere i compagni a fermarsi di fronte alle discriminazioni, all’odio, agli insulti, alla violenza…? D’altro canto a una squadra, unica tra tutte quelle che partecipano al campionato europeo che non schiera nemmeno un calciatore di origine immigrata, chiedere di comprendere le ingiustizie del mondo, pare eccessivo. A indossare la maglia azzurra, solo corpi con sangue italiano. Persino Jorge Luiz Frello Filho, meglio noto come Jorginho, può essere considerato “uno di noi”, grazie a un trisavolo che gli ha dato in eredità globuli rossi doc. Per la logica che le origini e i corsi di lingua truccati valgono più del fare, del condividere, dell’operare, del pensare comunemente.
Ovviamente non è questione di quote, di prendere un rappresentante a caso per dimostrare l’avvenuta apertura a un mondo migliore. In Italia, evidentemente, il calcio non è come alcuni sport professionistici statunitensi, dove gli afro-americani hanno trovato luogo fertile per portare avanti idee forti che oltrepassano, e di molto, il perimetro dei campi da gioco. Esisterà mai un LeBron James in Italia? E non solo, anche dei Gregg Popovich e Steve Kerr, allenatori della NBA, che non si sono nascosti, che hanno espresso le loro opinioni in modo deciso, senza esitazioni, accettando l’idea che il consenso personale non è mai superiore alla parità degli individui. Evidentemente no, almeno a breve e medio termine.
Il calcio è un laboratorio sociale nel senso negativo del termine. Il football non è stato uno dei banchi di prova del thatcherismo, per sperimentare fin dove ci si potesse spingere con la repressione nei confronti dei ceti più deboli? E proprio in Italia, non è stato attraverso gli stadi che si sono potuti rilanciare pensieri e azioni dell’estrema destra?
Per tenere il discorso su un livello più basso, la disinvoltura con la quale si usano termini come “onore” e “tradimento”, solo per citarne un paio, dovrebbe quanto meno risultare sospetta. Quanti fini pensatori hanno attaccato Gianluigi Donnarumma per lesa maestà, solo perché ha fatto valere il suo status di libero professionista. Lui ha tradito e disonorato la maglia rossonera del Milan. Non come Marco van Basten, Alessandro Nesta e tanti altri che abbandonarono squadre come Ajax e Lazio e restarono fedeli alla chiamata di Silvio Berlusconi, dei soldi che prendevano per quella scelta esistenziale, per stare dalla parte dei più forti. Perché alla fine si può tradire ma non essere traditi, una vecchia storia che già conosciamo.
E ora Italia – Belgio, chi si inginocchierà? E tra tutti quelli che piegheranno o meno la preziosa articolazione, qualcuno penserà ai lavoratori ridotti a schiavi che in Qatar muoiono per regalarci uno splendido mondiale nell’inverno 2022?