Princess Mononoke fu, per lo Studio Ghibli, ciò che furono le coste dell’America per Cristoforo Colombo: uscita nella primavera del 1997, la pellicola trasportò i suoi naviganti verso le lontane sponde occidentali, elargendo al comandante Miyazaki una fama e un prestigio ad oggi considerati altresì doverosi. Il successo ottenuto dalla strana fiaba, forse la più genuinamente nipponica fra quelle illustrateci dal grande regista, pare tuttavia essere il frutto di un mistero, di un incantesimo o di un miracolo. Rientrando in sala venticinque anni dopo, veniamo investiti dagli stessi dubbi di allora: noi, figli della logica bipolare e talvolta manichea del Signor Disney, apparteniamo forse ad un mondo che con la cosiddetta Principessa spettro non ha (più) nulla a che fare. Eppure, quasi si trattasse di un sortilegio, rimaniamo incollati al grande schermo, prigionieri di un universo tanto più affascinante quanto più indecifrabili sono i suoi segni. In breve: perché qualcosa di così culturalmente specifico, così intrinsecamente legato alla sensibilità e alla coscienza storica giapponese, riuscì a farsi strada con tanto agio nel cuore dello spettatore europeo? E, ancora più in breve: cosa si nasconde davvero dietro quest’opera magniloquente e allucinata?
In un certo senso, il lungometraggio somiglia ad una moderna Odissea, ma ambientata fra le foreste vergini del periodo Muromachi – per intenderci, un’ingombrante sezione temporale che corre dal 1336 al 1573. Il nostro eroe è il giovane Ashikata, cacciatore e principe di un villaggio Emishi, ovvero: ultimo esponente di un’antica e nobile tribù realmente vissuta fra le coste dell’isola Honshū. Nel tentativo di proteggere il suo villaggio, Ashikata si scontra con un gigantesco spirito-cinghiale, un demone reso demone da qualcosa di estraneo e inquietante a cui nessuno sa ancora dare un nome. Prima di morire, la creatura ghermisce il ragazzo, ferendone un braccio e contaminandone l’animo con la propria furia. Una simile maledizione non lascia possibilità di ritorno: inizia così il viaggio del protagonista verso ovest, sulle tracce dello spettro e di un avvenire irrequieto.
Quest’ultimo, puntualmente, si presenta sotto le sembianze di due donne: la prima si chiama Eboshi, matriarca dall’aspetto austero e fondatrice di un’enorme fucina nota ai più come Tataraba (ovvero, Città del ferro). Il piccolo agglomerato urbano scalpita, soffia e sbuffa sulle pendici di un monte boscoso al cui interno sonnecchiano ataviche divinità. Eboshi è una guerriera spietata e un’astuta burocrate, il suo Dio si chiama Civiltà e si esprime esclusivamente al femminile. Eboshi ha un aspetto curato, indossa vesti di seta e annoda i lunghi capelli neri in acconciature fantastiche. La sua parola è aguzza e incisiva come la lama di un coltello, niente può scalfirla. Il suo volto pare congelato in una mite intransigenza, la stessa del celebre detto machiavellico “il fine giustifica i mezzi”. Eboshi è la mente e il braccio di una società proto-industriale e massificata, un fast-west asiatico à la John Ford in cui vige la sacra triade libertà, fratellanza, uguaglianza: gli inquilini della fornace sono infatti lebbrosi, prostitute, reduci di guerra, scarti del vecchio ordine feudale e futuri padroni del domani. Il progresso, secondo gli abitanti di Tataraba, è ciò che restituisce ad ogni individuo (perfino al più misero o al più abbietto) la sua dignità originaria, il progresso è ciò che pone donne e uomini sullo stesso piano, il progresso è ciò che trasforma l’entropia in equilibrio. L’errore di Eboshi è pensare di scacciare la barbarie per mezzo della barbarie stessa: nel tentativo di addomesticare la selva a suon di fucili e archibugi, ella finirà per dissacrarne il suolo, sprofondando in una spirale autodistruttiva che di civile non ha più nulla.

E ora veniamo all’antitesi di Eboshi e alla nostra Principessa Mononoke. Umana ma cresciuta in mezzo a giganteschi cani selvatici dal manto candido, San (questo il nome della fanciulla) è una sorta di Romolo che rifiuta di fondare l’Impero. San non intende costruire alcuna Roma, al contrario: la ragazza aborrisce qualsiasi forma di umana creazione, di artificio o d’infrastruttura collettiva. San distrugge tutto ciò che trova, è scostante e imprevedibile come un animale selvatico e si lascia avvicinare da Ashikata solo perché riconosce sul suo braccio il marchio della collera che soggioga anche lei. Mononoke, in giapponese, è un termine che indica una donna posseduta da uno spirito furibondo: la furia, dunque, e non semplicemente il rapporto fra civilizzazione e natura, fra passato e modernità, è il fulcro tematico dell’intera epopea.
Furiosi sono gli spettri che dimorano nella foresta, furiosa è la lotta fra due verità opposte, ognuna impegnata a combattere per il proprio il predominio sul tempo che verrà. Furiose sono le donne della fucina, pronte a conquistarsi il posto che gli spetta; furioso è il loro capo Eboshi, sorta di valchiria tanto imperturbabile quanto risoluta. Furioso è il Deidarabocchi (letteralmente: Colui che cammina nella notte), la suprema divinità del bosco dilaniata da un odio cieco e assassino nel momento in cui, per l’appunto, gli viene tolta la testa. Furioso è Ashitaka nel suo pellegrinaggio verso la morte, furioso è il suo cercare una cura per rimanere in vita nonostante i suoi atti sconclusionati – ad ogni uccisione, ad ogni scoppio d’ira, la macchia del demone-cinghiale si estende a dismisura. Furiosa, infine, è San, guidata da un livore che non conosce nemmeno più la sua origine. La cicatrice del risentimento deturpa la vita di tutti – che si tratti di uomini o Dei.

È la legge del karma: nei film di Miyazaki non esistono villains, soltanto persone desiderose di salvezza e redenzione. A tingere il corpo (e l’animo) di nero è spesso il gesto, e non la volontà che lo muove – per questo, non c’è vergogna che non possa essere mondata. L’happy ending non è un vero happy ending, ma un nuovo inizio, o meglio, un breve istante di pace, un limbo provvisorio in cui la rabbia momentaneamente si placa. “Placati”, infatti, è l’imperativo più utilizzato in assoluto durante l’intera avventura, quasi si trattasse di una formula magica il cui significato diverrà chiaro solo una volta giunti all’epilogo. Il compromesso e l’equilibrio sembrano aver ristabilito la propria supremazia, ma si tratta di una fugace illusione: presto tornerà la furia, nei panni di una San rabbonita ma ancora incapace di perdonare i suoi simili.
È la furia, del resto, a spingere il racconto in avanti, generando visioni di una crudeltà abbacinata talvolta fin troppo difficile da sostenere. È la furia il motore dell’opera, la mano di Miyazaki che scuote la testa di fronte ad un’umanità incapace di crescere attraverso i suoi errori – “contro gli stupidi non c’è possibilità di vittoria” è la battuta che chiude la pellicola. La furia è come il fuoco incandescente di una fornace: essa genera e annienta, dona la vita e porta alla morte. E possiede tutti.
Dal 14 luglio di nuovo in sala
Cast & Credits
Princess Mononoke – Regia: Hayao Miyazaki; sceneggiatura: Hayao Miyazaki; fotografia: Atsushi Okui; doppiatori italiani: Alessandro Quarta (Ashitaka), Laura Lenghi (San), Alessandra Cassioli (Eboshi), Marzia Ubaldi (Moro), Glauco Onorato (Okkoto), Paolo Buglioni (Gonza), Giorgio Lopez (Jiko), Francesca Guadagno (Toki), Mino Caprio (Koroku); produzione: Studio Ghibli; origine: Giappone 1997; durata: 128’; distribuzione: Lucky Red.
