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Svegliami a mezzanotte: forse non c’era titolo più ispirato per raccontare, anche filmicamente, il travaglio personale attraverso cui Fuani Marino ha fatto inaudita esperienza della morte ed è stata rigenerata nel respiro di una vita che troppo a lungo era stata sopravvivenza. Perché c’è una dimensione costantemente onirica, sospesa, notturna, da fase rem di un incubo ricorrente – quello della frantumazione del proprio sé psichico – nella scelta del sentimento che il regista Francesco Patierno ha impresso alla trasposizione cinematografica dell’omonimo libro autobiografico della Marino (Einaudi 2019).
Le parole, utilizzate per parlare del tentato suicidio compiuto a soli quattro mesi dalla nascita della figlia, appartengono dunque alla Marino, seppur interpretate in un’efficace connessione di trasporto e lucidità dall’attrice e doppiatrice Eva Padoan; e tra le righe di un diario/confessione/lettera si scorge in filigrana il ritratto di un contesto sociale e antropologico (la buona borghesia napoletana tra gli anni ‘90/2000) dal quale, senza forzature o troppo strette cornici ideologiche, emerge come si sia infiltrato nella testa di questa ragazza, che all’inizio sembra uscita da un rohmeriano racconto d’estate o di primavera, il tarlo di un disagio mentale così logorante e sfinente da far agognare il definitivo congedo da ogni bella speranza. Riformulando la lezione più contemporanea del cinema del reale, Patierno alimenta una feconda e complessa stratificazione di materiali e linguaggi per restituire, come non mai in questo caso, una direzione esistenziale smarrita e poi ritrovata: c’ è dunque l’alternanza degli home movies familiari che la stessa Fuani ha messo a disposizione- esponendosi in una progressiva presenza corporea sullo schermo come testimone di una testuale e simbolica caduta e rinascita – con spezzoni di un repertorio televisivo appartenente agli anni ‘60/70 , un contrappunto sulla moralistica e soffocante rappresentazione della donna/madre.
Se restiamo solo nell’ambito del cinema documentario italiano, le analogie con le opere di Alina Marazzi (già menzionata a proposito del film di Celine Khindria e Vittorio Moroni, Non ne parliamo più, anch’esso nel Concorso Documentari Italiani del Festival di Torino del 2022) sono in una evidente e feconda dialettica: tanto in Un’ora sola ti vorrei che in Vogliamo anche le rose Marazzi parte dalla forma del diario (nel primo caso quello della madre morta in una clinica psichiatrica, nell’altro i diari di donne raccolti all’interno dell’archivio di Pieve Santo Stefano) per tracciare una fenomenologia dell’identità femminile, nella dimensione privata e in quella pubblica. Come se provenisse da un’altra epoca, la stessa inquieta e irrequieta necessità di comprendere l’origine della ferita narcisistica alla base di una scissione tra essere ed apparire, riguarda anche una donna nata e cresciuta in un momento storico apparentemente di emancipazione e libertà.

L’elemento più interessante del film di Patierno infatti , che riprende sotto un’ottica differentemente problematica le questioni poste da Marazzi, risiede nel mantenere il costante sottotesto di oppressione e giudizio, stigma e colpa, in particolare associato alla difficoltà di accettare l’esperienza della maternità non come scelta visceralmente sentita ma come ruolo sociale formalizzato e deformato nella maschera di un’edificante felicità domestica. Quelle immagini d’epoca diventano così immaginario radicato nell’inconscio di tante ragazze di generazioni successive come Fuani Marino, ancora oggi alle prese con una pressione di matrice patriarcale che le vuole rampanti e competitive sul mondo del lavoro (la Marino aveva avviato una brillante carriera di giornalista) e accudenti e rassicuranti a casa, con il fiato sul collo del proprio, sovrastrutturato e nevrotico Super io pronto a punire ogni spostamento o ridefinizione.
Nella tensione dinamica tra il passato e il suo conseguente fardello che continua ad avere un peso specifico nel presente, entra in gioco l’elemento della memoria come processo di elaborazione ancora nel suo svolgimento; e nel passaggio dal testo scritto a quello visuale, ulteriore rilievo a quest’intima sonata di una sfumata tragedia viene dato dalle fotografie non percepite come eternizzate e chiuse contenitrici di ricordi. A prescindere dal dato tecnico di essere messe più o meno a fuoco, sono foto mosse e sfuggenti, la rivelazione implicita di uno slittamento di senso spazio/temporale, che restituisce la frattura nella mente e nel cuore della scrittrice, incapace di rimettere insieme l’essenza e l’immagine di se stessa riflesse e scisse nello specchio scuro di un’apparentemente degenerativa sindrome bipolare.

Non c’è però solo il livello fantasmatico e proiettivo de Il male oscuro, definizione quest’ultima utilizzata da Giuseppe Berto per rappresentare la sofferenza psicologica somatizzata e che risuona ancora oggi, e in relazione questa vicenda, potente e pregnante; a un certo punto entra nel campo di forze avverse il corpo della ragazza-donna, ma non quello di una femminilità partoriente già segnata da un’angoscia e da un presentimento. C’è, abbastanza raro nel cinema italiano, il corpo che cerca la morte e lo fa gettandosi dal quarto piano di una palazzina, una spinta all’ autodistruzione della quale abbiamo il privilegio di ascoltare il seguito mentre la protagonista sopravvissuta ha l’opportunità di raccontarne un finale alternativo. La frattura, da intrapsichica ed emotiva, è visibile nelle ossa rotte di Fuani, nelle ingessature, nell’inchiodamento al letto di un ospedale a causa di un gesto provocato intenzionalmente. Nessun indugio o insistenza nel mostrare le ferite, prevale la rarefatta atmosfera di evocazione di un indicibile trauma e di un incredibile risveglio. Non si ricorre a soluzioni, riscatti o rivendicazioni, perché la ricostruzione è ancora in atto e sopra a tutto c’è la volontà da parte dell’autrice di condividere la consapevolezza di una condizione di sofferenza e la ricerca di un senso a tutto quel dolore, giorno dopo giorno.
E forse ci piace immaginare che il racconto vada a concludere da un’altra prospettiva le pagine interrotte dei diari di Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann, Sarah Kane , la madre di Alina Marazzi, tutte quelle donne, poetesse, scrittrici o persone comuni, che hanno pagato il prezzo più alto per l’iniquità di un mondo senza ascolto e senza pietas.
Presentato nel Concorso documentari del 40° Torino Film Festival
In sala dal 13 febbraio 2023
Svegliami a mezzanotte; Regia: Francesco Patierno; Sceneggiatura: Francesco Patierno e Fuani Marino dall’omonimo romanzo di Fuani Marino; Fotografia: Paolo Pisacane; Montaggio: Renata Salvatore; Musiche: Massimo Martellotta; Produttore: Maura Cosenza; Origine: Italia, 2022; Durata: 71 minuti; Distribuzione: Luce Cinecittà .
