Ripley di Steven Zaillian

  • Voto

Ripley, la serie crime-thriller-noir in onda su Netflix, è un tale caso da costringerci a iniziare questa recensione con una piccola premessa teorica, che riguarda lo strapotere irrefrenabile della serialità, fenomeno in una tale crescita esponenziale da imporci alcuni pensosi interrogativi.

Parto da un dato inconfutabile: nella città in cui vivo, Catania, che frequento da una ventina d’anni sopravvivono appena quattro cinema: vent’anni fa erano più del doppio. Se comparassimo questo dato con quelli omologhi su scala nazionale, penso che otterremmo un analogo responso, che è peraltro equiparabile a quello della progressiva flessione macroscopica dei frequentatori delle sale e dei relativi incassi.

Si sa: la pandemia con annesso lockdown biennale ci ha impigriti un po’ tutti e viziati a preferire le visioni domestiche, anche per la complicità delle piattaforme “over-the-top”, che hanno preso a germinare con progressione parossistica. Nel mio piccolo ho provato a chiederlo a Paolo Genovese, che si è cimentato di recente proprio con una fortunata serie-tv (il bell’adattamento del bestseller I leoni di Sicilia per Disney+) che mi ha risposto così: “Ogni storia ha un suo arco di tempo naturale nel quale essere narrata: un cortometraggio può essere perfetto se dura due minuti e oggi abbiamo scoperto che ci sono delle storie che hanno bisogno di tempo, dove vogliamo conoscere e approfondire i personaggi. Ci sono delle serie che mi hanno fatto fare le tre di notte, perché seguendole entravo in un mondo a parte.” Giusto, condivisibile, convincente. Quando però ho chiosato “speriamo che ciò non comporti la morte del cinema”, il buon Paolo ha giocoforza glissato: “speriamo di no…”

Me lo son (e glielo ho) chiesto perché temo davvero che il rischio esista, e non perché sono un reduce del Novecento abbarbicato al ricordo nostalgico della celluloide e dell’infiammabilità del nitrato d’argento. E me lo sono chiesto davanti al successo quasi unanimistico della serie di cui ci stiamo occupando, che – per citare il titolo italiano del film che ha imposto il fascino provocante di Brigitte Bardot Et Dieu… créa la femme – piace a troppi! Direi quasi a tutti: un “must watch” praticamente ineludibile, già in odore di cult.

Forse per questo pregiudizio negativo, dettato da un’immotivata antipatia da ridotta cinefila, ho iniziato a guardare le otto puntate piuttosto lunghette con sguardo scettico, deciso a stroncarne i supposti difetti.

Eccomi, dunque, ricurvo sullo scrittoio a intingere il mouse nel curaro vindice del paladino della pellicola dura e pura. Eccomi affastellare sentenze biliose, come questa: “La serialità deve essere motivata: altrimenti diventa un sequestro di persona!” Oppure: “Ok, va bene la passione per le immagini in movimento, ma poi c’è la vita, che è grosso modo ‘far dei figli, mangiare, bere, leggere, amare…grattarsi!’, come dice il maestro; ma anche – chessò – varcare di quando in quando il foyer di un teatro, abbandonarsi ai piaceri di un concerto di musica da camera, ai languori di un amplesso (no, adesso non esageriamo!). Se tu, Steven Zaillian mi sequestri in salotto per assistere alla tua serie, quando le farò quelle altre cose? E poi, volendo restare soltanto alle serie, per parafrasare il compianto Troisi: voi siete in tanti a girare le serie, e io solo uno a guardarle! La tal rivista specializzata (e il nostro stesso sito) mi informa che su Amazon Prime è appena sbarcata l’imperdibile Fallout, e il mio quotidiano di riferimento mi suggerisce di non perdermi l’imperdibile Il clandestino con Edoardo Leo, visibile invece sulla Rai.

Cosa credete, voi showrunner, che le nostre giornate durino 48 ore!

Che bisogno c’era di adattare il romanzo di Patricia Highsmith, già peraltro portato sullo schermo, prima da Delitto in pieno sole (1960) di René Clément con Alain Delon e poi dall’iconico Il talento di Mr. Ripley diretto nel 1999 da Anthony Minghella? Tra l’altro nel film di Minghella funzionava benissimo la scelta del protagonista, Matt Damon, che col suo bel faccino pulito da good boy bostoniano era perfetto per incarnare l’infida doppiezza di questo son of a bitch! Guarda qui invece come è molto meno ambiguo in quel ruolo Andrew Scott; subito losco, con la vitrea fissità di uno sguardo vagamente nevrotico.

Eliot Sumner nella parte di Freddie Miles

Più si succedevano le puntate, e più mi convincevo dei limiti evidenti dello spettacolo che mi si stava parando innanzi. Ne vedevo solo i difetti: è prolissa, inutilmente stiracchiata, odiosamente autocompiaciuta; tutto considerato anche nel suo ingrediente più prezioso, la fotografia, che è in definitiva troppo soddisfatta di sé, col suo bianco e nero programmatico, stilizzato come un esercizio di stile estenuato e ricattatorio; non troppo diversamente, dopotutto, da un’altra opera distribuita qualche anno fa da Netflix: Mank di David Fincher.

E ancora: che fastidio che mi procura questa ennesima rappresentazione stereotipata dell’Italia degli anni ’60, tra Mina e Quando, quando quando; ancora una volta replicata (come sempre, troppo spesso, dagli americani) attraverso registri di messinscena posticciamente oleografici. Roma perennemente deserta come fosse un raggelato ancorché suggestivo tableau vivant, con gli scorci di Piazza di Pietra scenograficamente ineccepibili ma troppo belli per essere veri, con le 500 d’epoca a indurre un effetto nostalgia a un passo da un’estetica da modernariato. E poi, no, per carità, questo è troppo: tutti gli italiani – tutti! – coi baffi, compreso Corrado Fortuna, al quale per lo meno stanno bene.

E invece no, alla fine ha vinto Steven Zaillian e i producers di Netflix: episodio dopo episodio, essi mi hanno sedotto, grazie al lento e inesorabile andamento ipnotico della loro drammaturgia quasi speculare, direi consustanziale all’identità psicotica del protagonista dello show al quale dà il nome.

Ho dunque gradatamente iniziato a apprezzare l’eleganza formale della regìa, che mi apparsa a ben vedere molto poco formalista, invero; la perizia nell’orchestrare la messa in scena dei delitti, che in un crime\noir non è certo un dato accessorio. Lo squallore spoetizzante della violenza rappresentata nella sua prosaicità più disadorna, come a dire della banalità del male; lontanissima per fortuna da certe morti coreografate di casa a Hollywood, sebbene talvolta si fatichi a sospendere del tutto l’incredulità, a causa di scelte narrative e drammaturgiche vagamente lambiccate e barocche.

Maurizio Lombardi

Ho preso ad appassionarmi sempre di più alla performance di Andrew Scott, il cui spettro espressivo, che a tutta prima mi era sembrato limitato, mi è parso invece perfetto a ritrarre il disagio paranoide di un personaggio affetto da una sorta di sdoppiamento di personalità, non troppo diversa da quella del Norman Bates di Psycho o meglio ancora dell’Oliver Quick di Saltburn. E se proprio non son riuscito a sopportare la sostituzione di Philip Seymour Hoffman con Eliot Sumner, che è poi la figlia di Sting; sono stato rinfrancato dalle apparizioni molto opportune di Dakota Fanning e del sempre sulfureo John Malkovich. Ho infine molto apprezzato il bravo Maurizio Lombardi, nonostante i baffi, ma pur sempre, sempre “on fire”. E decisamente adorato il personaggio di Lucio, un favoloso gatto Maine Coon.

Ho trovato dopotutto rispettoso e assai originale il modo in cui il regista e lo sceneggiatore – che sono poi la stessa persona, appunto Steven Zaillian, che a 70 anni suonati ha raggiunto la consacrazione grazie a una serie tv – The Night Of – benché avesse vinto un Oscar, su cinque nomination, grazie alla sceneggiatura di Schindler’s List – hanno trasformato le fantastiche location italiane (la Costiera amalfitana, Sanremo, Roma, Palermo e Venezia) in un personaggio della serie; anche grazie a un lavoro superbo dei comparti di scenografia e fotografia, affidata al DOP di fiducia di Paul Thomas Anderson, Robert Elswit,  già vincitore di un Oscar per Il petroliere. E infine non mi sono potuto impedire di reputare geniale e perciò vincente il modo di usare la biografia e la pittura di Caravaggio come allegoria delle vicende narrate, metafora del protagonista della storia e pure della serie che la ospita che è – mi ero sbagliato – un piccolo, forse prolisso, capolavoro di arte figurativa applicata al piccolo schermo; che – ne sono certo – diventerà uno dei pilastri della stagione televisiva.

Con buona pace del cinema, che non muore; “speriamo di no” almeno, come dice Genovese. Forse…

Su Netflix dal 4 aprile del 2024


CREDITS & CAST

Ripley  Regia: Steven Zaillian; soggetto: dal romanzo Il talento di Mister Ripley di Patricia Highsmith; sceneggiatura: Steven Zaillian; interpreti: Andrew Scott, Dakota Fanning, Eliot Sumner, Maurizio Lombardi, Margherita Buy, John Malkovich; fotografia: Robert Elswit; montaggio: Joshua Raymond Lee, David O. Rogers; scenografia: David Gropman; origine: Usa, 2024; durata: 8 episodi; distribuzione: Netflix.

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