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Voto
Quello della famiglia allargata e/o disfunzionale, sembra essere, in varia maniera, il tema dominante per lo meno dei primi tre film del Concorso veneziano, una problematica declinata ovviamente in modo, ogni volta diverso. È questo, infatti, un aspetto che accomuna diversi momenti della nuova opera di Paolo Sorrentino ad altri due film molto attesi visti sino a oggi al Lido: Madres paralelas (https://close-up.info/madres-paralelas/ ) di Pedro Almodóvar e The Power of the Dog (https://close-up.info/3035-2/) di Jane Campion.
Ma andiamo per ordine. Su fondo nero la scritta “Ho fatto quello che ho potuto, ma penso di non essere andato così male”. (Diego Armando Maradona). Stacco. A seguire, sui titoli di testa che scorrono, un lungo, molto lungo piano sequenza aereo che dall’alto e dal mare si avvicina al porto di Napoli a seguire una imponente Rolls Royce nera che corre su una strada litoranea – la sequenza ci ha richiamato alla memoria l’inizio di un altro film girato sempre a Napoli dieci anni fa, Reality di Matteo Garrone. Nuova sequenza. Questa volta siamo di notte, probabilmente un sogno: in Piazza San Carlo dalla stessa Rolls Royce appare un personaggio che si definisce San Gennaro e che abborda una bella ragazza – la zia (Luisa Ranieri) del protagonista diciassettenne Fabio Schisa (un Filippo Scotti molto convincente) – a cui fa la grazia di poter avere un figlio che la ragazza fin qui non è riuscita ad avere.
Così tra miracoli religiosi e calcistici, un binomio che si ripeterà spesso nella nuova opera di Paolo Sorrentino, si da il la ad un grandioso racconto di formazione dagli ampi tratti autobiografici, anche se spesso trasfigurati e piegati dalle necessità della narrazione cinematografica e dell’ispirazione.
Siamo nella capitale partenopea alla metà degli anni Ottanta: Fabio, chiamato da tutti Fabietto, è nella classica età dove si prova timidamente a trovare un posto nel mondo, tra una famiglia allargata, divertente e avvolgente, quasi una sorta di utero materno, la scuola ovviamente, e l’oratorio dove si gioca a pallone. È un ragazzo timido che dovrà affrontare come, nella realtà della vita di Sorrentino, una serie di eventi che lo costringeranno a cambiare la propria esistenza in modo radicale. Il primo di essi è rappresentato dall’arrivo al Napoli di Diego Armando Maradona a galvanizzare la città e il protagonista, in un modo da suscitarne una sorta di sacro, orgoglioso risveglio.
Dopo una ampia e divertente descrizione della vita familiare del clan Schisa, con un Padre (Toni Servillo) di rigida morale comunista ma con il vizietto di un’amante, una madre amabilmente chioccia (Teresa Saponangelo) e un variegato contorno di parenti, tutti interpretati in maniera sublime, segue un evento drammaticissimo, traumatico, che priverà il protagonista dei genitori – per altro tra i due fatti c’è un nesso di diretta continuità, dato che Fabio verrà salvato proprio dal Dio Maradona che doveva vedere in campo la domenica, invece di seguire i genitori nella loro casa di montagna a Roccaraso dove moriranno: “per colpa di una stufa. Avvelenati dal monossido di carbonio”. Da ciò anche il titolo per niente simbolico del film, appunto È stata la mano di Dio.
La tragedia porterà il ragazzo a prendere una decisione fondamentale per il proprio futuro, quella di intraprendere la strada del regista cinematografico, sulla spinta della conoscenza di un autore, grande e creativo ma troppo poco conosciuto, che è Antonio Capuano, insieme al quale Sorrentino scrisse Polvere di Napoli (1998) . Anche lui a suo modo fu, per lui, un Dio.
Così commenta questo straordinario coming to age il suo autore: « La macchina da presa compie un passo indietro per far parlare la vita di quegli anni, come li ricordo io, come li ho vissuti, sentiti. In poche parole, questo è un film sulla sensibilità. E in bilico sopra ogni cosa, così vicino eppure così lontano, c’è Maradona, quell’idolo spettrale, alto un metro e sessantacinque, che sembrava sostenere la vita di tutti a Napoli, o almeno la mia».
Ma c’è anche un altro nume tutelare che non si è ancora ricordato e che aveva già a suo tempo influenzato in maniera profonda il nostro regista ne La grande bellezza (2013, https://www.closeup-archivio.it/la-grande-bellezza) e cioè Federico Fellini. Oltre che in tanti bozzetti dei personaggi minori o in comparsate di figure di fraticelli, l’insegnamento del maestro riminese ritorna, infatti, con la sua voce inconfondibile in un sequenza in cui si ricostruiscono dei provini che avrebbe a fatto a Napoli negli anni Ottanta, forse Ginger e Fred (1986) che però è ambientato a Roma. Ma la citazione più esplicita è quella conclusiva: come Moraldo, nel celeberrimo finale dei Vitelloni (1953), anche Fabio parte per Roma, malgrado il suo maestro Antonio Capuano l’avesse invitato a restare nella sua città e raccontarla in immagini. Ciò che ha finito per favore adesso, e in modo eccellente, più di vent’anni dopo.
Si tratta di un film corale e straordinariamente ben recitato da tutto il cast dove si fa a gara a ritrovare il migliore, particolarmente apprezzabile anche perché depurato di molte scorie manieriste, del cosiddetto “sorrentinismo”, che aveva forse offuscato alcune sue opere precedenti.
È stata la mano di Dio è una opera limpida, a tratti divertente, spesso drammatica che rispecchia e caratterizza la realtà della città di Napoli. Anche se l’autore ci ricorda sempre che “la realtà è opaca” a differenza del cinema. Invece il suo è un opale cristallino, straordinario che da subito si candida ad un premio a queste Festival di Venezia 2021 partito alla grande.
È stata la mano di Dio – Regia e sceneggiatura: Paolo Sorrentino ; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Carmine Guarino; costumi: Mariano Tufano; interpreti: Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Biagio Manna, Ciro Capano, Enzo Decaro, Sofya Gershevich, Lino Musella; produzione: The Apartment, Netflix; origine: Italia 2021; durata: 130’; distribuzione: Netflix.
