Festival di Cannes (2024): Ghost Cat Anzu (Bakeneko anzu-chan) di Yôko Kuno e Nobuhiro Yamashita (Quinzaine des Cinéastes)

  • Voto


Il film di animazione Ghost Cat Anzu, presentato a Cannes nella “Quinzaine des Cinéastes”, si distingue da altri popolari anime per la strana combinazione fra immagini a cartoni animato – alcune delle figure risultano grezze, altre più raffinate – caratterizzate da movimenti ed espressioni particolarmente realistici, e realizzate su scenari ben curati fino al dettaglio; a dimostrare la sua atipicità, inoltre, contribuisce il fatto che sia un lavoro risultato dalla coproduzione fra un’ormai storico studio giapponese, lo Shin-Ei Animation (fra i suoi lavori più conosciuti la serie tv per bambini Doraemon), e la più recente casa di produzione francese Miyu Productions.

La storia, adattata da un manga di Takashi Imashiro, racconta della ragazzina undicenne Karin, orfana di madre, affidata un’estate, ma in pratica abbandonata dal padre, al nonno, monaco di un piccolo tempio shintoista sulla costa giapponese. Il padre, in debito con dei personaggi poco affidabili, è in fuga da questi, e al tempo stesso alla disperata ricerca di soldi veloci. Se non fosse per Anzu, il gatto-mascotte del tempio, Karin si annoierebbe a morte. Ma il gatto Anzu dimostra di essere il contrario dell’animale domestico e in cerca di coccole che dovrebbe essere. Innanzitutto, con i suoi 37 anni di vita al tempio Sousei-je, ha superato anche la più venerabile età per un gatto normale, e quindi ormai, tutto il vicinato dà per scontato che sia il fantasma di sé stesso. In verità, Anzu, altro non è che un yōkai, uno spirito-demone che dimora nella fantasia popolare giapponese. Lo spirito, che ormai ha raggiunto dimensioni umane è, sì abituato a vivere fra la gente ma, in verità, è rimasto schietto ed egoista di natura: se ha imparato a cucinare e a fare pulizie, tuttavia, non si vergogna a scoreggiare e pisciare quando e dove capita.

Entrambi forti del loro carattere scontroso, almeno all’inizio, Karin e Anzu fanno fatica a sopportarsi; anzi, è solo per volontà del nonno che lo spirito si prende a cuore la ragazzina e la segue alla stazione quando lei ha deciso di tornare a cercare il padre a Tokyo. Oltre ad Anzu, che è uno dei più positivi, il film è popolato da altri strani demoni, come il dio della povertà, che ama avvicinarsi alle persone quando sono tristi e depresse e ne peggiora ancor più la situazione. Al suo opposto troviamo invece l’ottimismo dello spirito Rospo, che a forza di scavare buche ovunque, anche sotto un campo da golf, si è costruito un palazzo sotterraneo – con piscina inclusa e Ferrari parcheggiata – e vive nel lusso. È un bel gruppetto di spiriti e demoni che Karin riesce a commuovere raccontando della mamma morta, tanto che questi decidono di accompagnarla fino all’aldilà. Il passaggio, la porta segreta, attraverso la quale anche Karin è costretta a passare, è nientemeno che il water incrostato di un lurido bagno, oltre il sifone del quale, si apre un mondo di fantasia pieno di sorprese, e dove Karin ritrova la sua mamma per riportarla al mondo dei vivi.

L’idea principale del duo di registi giapponesi Yôko Kuno e Nobuhiro Yamashita era infatti sì di creare un mondo fantastico, ma cercando di mantenere l’umanità e il lato eccentrico dei protagonisti. Per farlo si sono serviti di una speciale tecnica d’animazione. Per quanto a prima vista non salti subito all’occhio, Ghost Cat Anzu, è stato realizzato con il procedimento del rotoscopio, detto anche rotoshop. Il metodo consiste nel disegnare i personaggi animati sovrapponendoli a figure vere, i movimenti delle quali sono stati precedentemente ripresi in sequenze filmiche. Questa tecnica permette di mantenere le qualità umane ed espressive delle figure, incluso anche il realismo dei loro movimenti. Fra gli esempi più famosi dove è stato impiegato il rotoshop possiamo citare Biancaneve e i sette nani, e Cenerentola, entrambi della Walt Disney. In origine però la tecnica era stata inventata e sperimentata dall’animatore americano Max Fleischer per le serie di Betty Boop e Braccio di Ferro (Popeye). Pur non essendo una novità nemmeno per le anime giapponesi, forse la particolarità che differenzia il rotoshop usato in Anzu rispetto ad altri suoi precedenti, è la luminosità che circoscrive i contorni delle figure e degli oggetti. In pratica, guardando il film, sembra sia la luce a definirne le linee, che anzi, risultano essere quasi assenti o appena accennate. Sia il contrasto, che la profondità, ma anche le ombre, vengono create quindi grazie al colore.

Sebbene i riferimenti letterari e il risultato finale siano altamente diversi, la storia di Karin ricorda e riprende nel soggetto Il ragazzo e l’airone, l’ultimo e recente lavoro del grande maestro Hayao Miyazaki. Ritroviamo nei due film alcune caratteristiche comuni che ci sembra importante far notare: l’ambientazione in un luogo sacro, la solitudine del protagonista, l’animale-spirito protettore, il passaggio all’inferi per ritrovare la mamma, la lotta ai demoni negativi. Nonostante questo, le scelte finali di Yôko Kuno e Nobuhiro Yamashita si limitano ad una storia particolare, mentre Miyazaki si è spinto, da una semplice storia di partenza, a creare un universo di domande e a dare altrettante possibili risposte. E forse in questo sta la sua bravura.

L’esperimento di Ghost Cat Anzu è sicuramente singolare e merita anche solo per la particolare ricerca stilistica un’uscita in sala. Alle famiglie, e soprattutto ai fans di anime, offre dei personaggi bizzarri e non scontati in un’interessante riflessione sui valori dell’amicizia nel superamento di una crisi.


Ghost Cat Anzu (Bakeneko anzu-chan); regia: Yôko Kuno e Nobuhiro Yamashita; sceneggiatura: Shinji Imaoka, Takashi Imashiro; fotografia: Masato Makino; montaggio: Toshihiko Kojima; musica: Keiichi Suzuki; produzione: Shin-ei Animation, Miyu Productions; origine: Giappone/Francia, 2024; durata: 90 minuti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *