“Cosa c’è dopo le macerie?” Sullo sguardo esistenziale e politico di Salvatore Piscicelli – Un ricordo

Una premessa piena di riconoscenza: il cinema di Salvatore Piscicelli che ci ha lasciato a Roma lo scorso 21 luglio (era nato a Pomigliano d’Arco il 4 gennaio 1948), ci ha fatto fare esperienza in maniera estetica e sensoriale del movimento sorgivo dell’andata e di quello, sempre lucidamente decaduto e mai compiaciutamente decadente, del (non) ritorno. Ci siamo sentiti coinvolti in una dimensione colta e intellettuale dall’elaborazione iconica delle sue immagini, costituite da elementi in pre-visione di ciò che sarebbe accaduto un attimo prima che ne avessimo la concreta e stordente percezione, e al tempo stesso colpiti al cuore e alle viscere da un desiderio e da una tensione verso il cambiamento, emerso in tutta la sua potenzialità e fallacità. Per questo all’indomani della sua scomparsa si riattiva la vivida memoria in presa diretta di una sequenza che, restando sul piano iconografico, per paradosso decostruisce e non rafforza l’attraversamento di un cruciale momento storico ed esistenziale (siamo nel 1981 ed è appena entrato nel vivo il decennio del vuoto edonistico, a coprire le macerie post ideologiche e post rivoluzionare del decennio ‘68/’78): lo sguardo che segue il corpo e il volto di Marina Suma per i marciapiedi e le strade de Le Vele di Scampia nella sequenza iniziale de Le occasioni di Rosa (1981), ci fa spostare con lei in un’alternanza di inquadrature tra la totalizzante immersione della soggettiva e la distanza straniante del campo lungo.

Ci troviamo a essere partecipi della sua determinazione ad andare in direzione ostinata e contraria all’identità proletaria che la madre vorrebbe cucirle addosso (l’asettico e anonimo status dell’appartamento loculo e del lavoro in fabbrica );  eppure in quel guardare avanti un po’ ottuso e un po’ strafottente già si cela la paura di non volersi fermare a vedere l’assenza di alternative non più concepite in quanto scelte ma, appunto, come occasioni  nell’accezione predatoria, opportunistica, che risponde all’istinto animalesco di chi deve sopravvivere e non vuole cambiare. Proprio per questo, fuori dal personale loop mentale del sottoscritto che riassume in quella sequenza i tratti di una magnifica ossessione – espressione quest’ultima utilizzata anche come titolo dell’esaustivo volume monografico sull’opera omnia di Piscicelli curato da Alberto Castellano e al quale ho avuto l’opportunità di partecipare con un saggio proprio sul rapporto tra figura femminile e paesaggio – l’esordio di Rosa alla vorace ricerca delle sue possibilità è l’immagine più ricorrente nei ricordi a caldo di una comunità cinematografica che piange precocemente e anche inaspettatamente la perdita di Salvatore non solo come cineasta, ma anche come critico e pensatore. E a questo proposito non è un’ esagerazione affermare che soprattutto nella bistrattata produzione italiana degli anni ’80, i suoi film sono stati quelli che, mettendo in crisi una narrazione a uso e consumo soprattutto di una Napoli marginale e limitrofa, rapacemente predata in seguito da un’ omologante forma para televisiva, hanno messo in scena il rapporto tra realtà e rappresentazione; la necessità del superamento di stilemi di racconto e di visione dove risultano riduttivi i dicotomici confronti tra ideologia e pragmatismo, soggettivazione e oggettivazione,  ribellione e omologazione.

In Piscicelli non c’è ombra di moralismo o di giudizio,  ma  la ricerca di una distanza necessaria per consentire l’accesso ad una riflessione critica e, ancor prima, per il tramite di un perturbamento che lascia spiazzati gli occhi e la bocca  in anticipo sui pensieri e le parole, ad una serie di domande, di questioni, di punti interrogativi con i quali si mettono in scacco le certezze dei punti esclamativi posti in calce al linguaggio pubblicitario della cultura capitalistica. Allora torniamo non al corpo, inteso nella sua esclusività ed unicità, ma ai corpi, in particolare quelli femminili che Piscicelli, grazie all’imprescindibile contributo di Carla Apuzzo, sua compagna di vita e di cinema come pensiero e pratica, ha messo a ferro e fuoco spesso e volentieri nel respiro intenso del melodramma. Immacolata e Concetta (1980), che erano apparse ed esistite sullo schermo un anno prima di Rosa,  si facevano portatrici di una possibilità di eros vitale e trasformativo sopra la superficie di un territorio terremotato, abitato nelle sue profondità da un’umanità tenuta in bocca come non mai da un cane (come avrebbe fatto dire in una sua pièce teatrale Antonio Capuano, appartenente in qualche modo alla stessa genealogia artistica di Piscicelli, al personaggio di un’anziana clochard interpretata dalla grande attrice Angela Pagano (Napoli, 1º aprile 1937 – Napoli, 6 luglio 2024), anche lei recentemente scomparsa. Due donne unite da una congiunzione che è anche fragile ripetizione di un introiettato modello di coppia non completamente emancipato, nonostante la questione del genere,  dalle convenzioni e dalle dinamiche etero normate,  rielaborando in questo una decomposizione dello schema sociale già messa in atto da uno dei suoi dichiarati, non solo verbalmente ma proprio nella risonanza di un posizionamento etico ed estetico, autori di riferimento; e se Rainer Werner Fassbinder, ne Le lacrime amare di Petra von Kant, raccontava sullo sfondo di un coté lesbico ambientato e transitato dalla media e alta borghesia l’impossibilità di liberarsi dalle gabbie della nevrosi possessiva e sadomasochista, Piscicelli ne declina le stesse derive, spostandone fino alla tragedia le estreme conseguenze, in un’ ambientazione periferica ai limiti della legalità; in una rarefatta atmosfera di passione e di violenza che, da latenti, esplodono in una sovrapposizione/successione tra accensioni e raffreddamenti.

Non c’è però rassegnazione o ineluttabilità, la forma e le combinazioni possono cambiare e la ricerca in questo senso continua con un altro film proiettato oltre il recinto minato dell’ultimo ventennio del ventesimo secolo, fino ai protomi del ventunesimo: Quartetto (2001) apre a una relazione, sempre tutta femminile seppur senza implicazioni apertamente sentimentali ed erotiche, che è il sentore, il termometro, la nuova laica e lucidissima annunciazione di una sofferenza che ha perso i connotati materici e concreti del soddisfare i bisogni primari o anche quelli indotti. Se l’aspirazione di Rosa si realizzava nel vedere la sua immagine riflessa dentro lo schermo di un apparecchio televisivo, le quattro ragazze del nuovo millennio, attrici in cerca di un diverso concetto di autorialità, girano intorno ad una autorappresentazione spinta fino all’eccesso autodistruttivo ma che comunque, contenendo in sé l’immediatezza e la brutalità delle regole del Dogma ‘ 95 ( il movimento creato e poi soppresso dal tormentato spirito provocatorio di Lars von Trier), lascia un segno e una testimonianza; un salto nel vuoto che restituisce ancora l’impressione sonora dello schiantarsi fuori campo di un corpo, prima che il digitale smagnetizzi ogni urlo, ogni eco e ogni pulsione. Nel momento in cui facciamo i conti con la morte allora, riappropriamoci di una ritualità convulsa, sensuale e notturna come la quantità di musica eseguita dal vivo e registrata in analogico di Blues metropolitano (1985). È bello immaginare  il compianto Pino Daniele, Tullio De Piscopo, Tony Esposito e tutti gli altri appartenenti alla scena musicale partenopea (e coloro che gravitano nel suo sottobosco e ne alimentano le vibrazioni)  intenti a performare non un’ elegia trascendente, ma il flusso di un ‘energia immanente. L’attimo in cui Salvatore Piscicelli è ancora qui, a guardare con noi quel cielo notturno e lunare, ma senza sentimentalismi, bensì rapito da una digressione e da una dissonanza jazz.

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