Alien: Romulus di Fede Alvarez

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Quello di Alien è ormai diventato un vero e proprio genere a se stante, con regole e caratteri ricorrenti, in buona sostanza definiti e standardizzati nei primi due capitoli cinematografici della saga, diretti da Ridley Scott (Alien, 1979) e James Cameron (Aliens – scontro finale, 1986). Da queste regole (spazi claustrofobici, un equipaggio destinato al massacro, una protagonista femminile forte e, naturalmente, l’Alien, lo xenomorfo sterminatore, territoriale come potrebbe esserlo uno squalo nello spazio), non è facile sfuggire, sebbene negli anni, qualcuno ci abbia provato. Tra questi lo stesso Scott, che nei due prequel Prometheus (2012) e Alien Covenant (2017), aveva tentato di ampliarne il mito, narrandone in qualche modo le origini, ma ingarbugliando inutilmente la matassa. Lo xenomorfo, come lo Squalo spielberghiano, funziona bene così, senza troppi fronzoli, senza passato, senza padri, sentimenti e morale.

La massiccia campagna promozionale di cui quest’ultimo capitolo della saga si è giovato, prometteva un ritorno alle atmosfere delle origini, soprattutto della prima pellicola, ai cui fatti si ricollega collocandosi venti anni dopo l’esplosione della Nostromo. Una promessa, tuttavia, avveratasi, a dir poco, solo a metà.

Per riuscire nell’arduo compito, nel 2022 è stato chiamato alla regia Fede Alvarez, assiduo frequentatore di remake e di “requel”, con i non proprio riuscitissimi La casa (2013) e Non aprite quella porta (2022) – a conferma della configurazione derivativa che ha assunto oggigiorno la produzione cinematografica statunitense, dei blockbuster in particolare.

Peccato solo che la miglior prova registica di Alvarez sia stata su un suo soggetto originale, quel piccolo gioiello che era Man in The Dark (Don’t Breathe, 2016), film di genere che, come nella migliore tradizione, era dotato di un respiro più ampio e di uno sguardo lucido e attento sul mondo. Riunito allo sceneggiatore di fiducia e sodale Rodo Sayagues, durante le sequenze iniziali di Alien: Romulus, Alvarez prova ad adottare questo sguardo, parlando di classe operaia, di minatori in particolare, schiacciati da condizioni lavorative e di vita al di sotto della soglia di dignità – regista e sceneggiatore, entrambi uruguaiani, di minatori, di risorse naturali sfruttate da corporazioni private e di diritti non riconosciuti, ne sanno evidentemente qualcosa.

Tayler (Archie Renaux), Kay (Isabela Merced), Bjorn (Spike Fearn) e Navarro (Aileen Wu) sono un gruppo di amici che progettano di fuggire da una delle colonie minerarie della Weyland-Yutani, pianeta la cui superfice non è mai baciata dai raggi solari per via della spessa coltre atmosferica che la circonda.  non controllato dalla mefistofelica corporazione e di farlo rubando i moduli criogenici situati su di  una vecchia stazione spaziale abbandonata in orbita vicino al pianeta-miniera. Al gruppo si unisce anche Rain (Cailee Spaeny), che col duro lavoro è riuscita ad accumulare i crediti necessari per recarsi legalmente su Ivaga, salvo scoprire – in modo simile a quanto accadrebbe a un anonimo lavoratore prossimo alla pensione, recatosi presso un qualsiasi sportello INPS – che la legge è cambiata e che i crediti sin li accumulati non sono più sufficienti.  Rain è accompagnata da Andy (David Jonsson), uno dei primi modelli di androidi colonizzatori, scartato e rimpiazzato dalla Weyland con il più efficiente, amorale (e bianco) androide che vede nell’Ash, interpretato dal compianto Ian Holm, il modello antesignano. Giunti sulla stazione Romulus, scopriranno che è stata abbandonata per un motivo ben preciso e che su quella stazione non sono affatto soli. Uscirne vivi sarà tutt’altro che facile o scontato.

Chissà qual era la “direttiva primaria” di Alvarez e Sayagues, e se anche loro abbiano subito un up-grade al protocollo originale, con la sceneggiatura sovrascritta dalla Disney, così come la Weyland –Yutani corporation fa con la A.I. dei propri androidi.

Sì perché, la prima impressione che si ha del film è quella della discontinuità, dell’accumulo, a tratti incoerente, di idee e citazioni. Queste ultime davvero numerosissime.

Di positivo vi è che la promessa di un ritorno alle origini è stata mantenuta, almeno nella prima parte del film, da una messa in scena decisamente buia e claustrofobica, come lo sono i cunicoli nei quali si trovano a lavorare i minatori, e da un design post-industriale e retro-tecnologico coerente con il capostipite della saga (coerenza andata inspiegabilmente perduta nei prequel). A tutto questo Alvarez aggiunge molto dell’armamentario del genere horror che egli frequenta: i cliché tipici del sottogenere “home invasion”, che qui subiscono un ribaltamento simile a quanto capita nel già citato Man in the Dark, lo splatter e, certamente, il body horror. Unito a un uso forse eccessivo di jump-scare.

In generale si tratta di un continuo gioco al rialzo, dove, rispetto alle versioni precedenti del franchise, la posta deve essere necessariamente raddoppiata. Ecco dunque che vengono esasperate le metafore sessuali proprie della saga: la vicinanza allegorica e disturbante dell’universo xenomorfico agli organi riproduttivi maschili e femminili, già ampiamente teorizzato nel lavoro originale di H. R. Giger; la fecondazione degli umani come sorta di atto sessuale violento e il tema della maternità e del feto visto sotto la lente della contaminazione parassitaria. E’ presente, infine, una riflessione di carattere etico, sulla natura umana, sul suo retaggio, ma soprattutto sulla sua evoluzione, sul suo destino in rapporto alla ricerca scientifica, della provenienza e delle finalità dei capitali con cui questa è finanziata.

Il problema forse, come scritto, è che non ci si ferma qui. Perché, al già corposo menù imbastito dalla sceneggiatura, vengono aggiunti ulteriori elementi – di cui si poteva fare francamente a meno – nel tentativo, forse, di ricucire la divaricazione esistente tra la quadrilogia originale e i suoi prequel. È dunque nell’ottica dell’accumulo di cui si è detto, che il film in parte deraglia. Viene mostrato troppo. Viene mostrato male. Soprattutto viene riproposto anche qui il tentativo di andare oltre quella perfetta macchina di morte, pensata in origine da Dan O’ Bannon e dal design insuperabile ideato da H. R. Giger.

Speriamo, dunque, che questo spin-off rimanga un capitolo a se stante e che non si prosegua oltre. Ma con la furia exploitativa della Disney c’è poco da star tranquilli. Il futuro della saga appare decisamente più oscuro dello spazio profondo nel quale è ambientato.


Alien: Romulus  – Regia: Fede Alvarez; sceneggiatura: Fede Alvarez e Rodo Sayagues (dai personaggi creati da Dan O’Bannon e Ronald Shusett);  fotografia: Galo Olivares; montaggio: Jake Roberts; musica: Benjamin Wallfisch; scenografia: Naaman Marshall; interpreti: Cailee Spaeny (Rain Carradine), David Jonsson (Andy), Archie Renaux (Tyler), Isabela Merced (Kay), Spike Fearn (Bjorn), Aileen Wu (Navarro); produzione: Ridley Scott, Michael Pruss, Walter Hill; origine: USA, 2024; durata: 119 minuti; distribuzione: 20th Century Studios Italia.

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