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Voto
è lui?
Non lo so. Non lo so più.
I fantasmi sono ovunque e provengono da ogni luogo, da ogni tempo. I fantasmi di Les Fantômes sono e morti e vivi: i primi vagano nella mente dei sopravvissuti, i secondi sono persone che hanno compiuto delitti orrendi e ora vagano per il Vecchio Continente, in cerca di una vita, forse dell’espiazione dei peccati. Insomma, uno spettro si aggira per l’Europa, non è il comunismo, bensì i sommersi e i salvati di una delle tante guerre che alla lontana (ma nemmeno troppo) con noi ha a che fare: la guerra in Siria.
2014, Siria. Hamid (Adam Bessa) è un professore di Lettere all’Università, ma scoppia la Primavera Araba e il dittatore Bashar al-Assad la sopprime nel sangue. Anni nostri, Strasburgo. Hamid fa l’operaio. Quando deve parlare con la madre, affitta una giacca e una camicia e dice di tenere corsi di Letteratura all’Università, per non farla preoccupare.
Anche se le mie gambe fossero tagliate, ti proibisco di tornare in Siria.
In realtà, a Strasburgo ci sta per un motivo preciso: è sulle tracce dell’aguzzino che nella prigione di Sednaya lo torturava. La guerra gli ha portato via moglie e bambina, e lui la notte sogna la voce di quell’uomo. Il gruppo organizzato di cui fa parte gli ribadisce in più occasioni che il torturatore non è l’uomo che sta cacciando da varie settimane, ma lui non ascolta più nessuno. Ormai il pensiero fisso è la vendetta, anche se
È lui?
Non lo so. Non lo so più.

Presentato a Cannes 2024, Les Fantômes è il primo lungometraggio del regista Jonathan Millet. Precedentemente, il regista si era distinto per vari documentari e cortometraggi con tematiche legate strettamente all’identità culturale, alla resilienza e all’emarginazione, e questi temi tornano nell’opera prima, ne sono il fulcro. Girato con uno stile asciutto e diretto, una sceneggiatura equilibrata e ordinata, il film non eccelle per originalità narrativa né per eccelsi lavori delle maestranze (comunque buoni), certo narra una storia sotterranea della nostra contemporaneità e questo merito lo si deve riconoscere. L’ossessione di Hamid viene esplorata senza (quasi mai) cadere nell’eccessivo e il rapporto che s’istaura tra cacciatore e preda (dopo che nel passato il cacciatore era preda e la preda era cacciatore) è il punto forte del lungometraggio: l’osservazione del nemico, questi visto sempre di spalle e raramente frontalmente, i mancati incontri e gli incontri reali, l’ammontarsi di smentite e conferme, porta lo spettatore a empatizzare con il protagonista ma pure con l’antagonista, e chiedersi se il passato valga quanto il presente.
Harfaz (nome dell’aguzzino) non è un uomo cattivo. O meglio, non lo è in questo momento. Lo è stato in passato, e il profumo che portava quando testava gli acidi sulle vittime è il medesimo di quello che si mette ora mentre studia all’università. Hamid non è stato un uomo cattivo. Potrebbe però addivenirlo , facendosi giustizia da sé. La zona grigia tra bontà e cattiveria, tra colpevoli e innocenti, si espande e i personaggi ne rimangono invischiati. A ciò si aggiunge lo scarto culturale: loro sono persone che vivevano una vita, quella siriana, e adesso ne vivono un’altra, europea. Rimbalzati tra Germania e Francia, in un’Europa nella quale loro saranno per sempre estranei, a mangiare un cibo che cerca di imitare il loro ma altrettanto buono non è, a intessere relazioni nelle quali saranno sempre degli stranieri prima che delle persone. A vivere una vita che non doveva essere la loro, eppure lo è e doverlo accettare, rinnegando patria e famiglia.
Les Fantômes è un buon prodotto, un thriller pacato e comunque tensivo. Studio di un’ossessione catartica, ci ricorda che il mondo in cui viviamo è permeabile negli spazi come nei tempi: a intrecciarsi alle nostre vite ci sono i fili di vite altrui, fili che nascono lontano e possono. A volte vengono recisi sul nascere, a volte sono costretti ad arrotolarsi talmente tanto da divenire sottilissimi. E a quel punto decidere se sia il tempo di mutare materia.
Les Fantômes – Regia: Jonathan Millet; sceneggiatura: Jonathan Millet, Florence Rochat; fotografia: Olivier Boonjing; montaggio: Laurent Sénéchal; musica: Yuksek; suono: Nicolas Waschkowski; scenografia: Esther Mysius; interpreti: Adam Bessa, Tawfeek Barhom, Julia Franz Richter, Hala Rajab; produzione: Films Grand Huit, Niko Films, Hélicotronc; origine: Francia, Germania, Belgio (2024); durata: 106 minuti.
Foto di copertina di Alessandro Sforza
