Il mio giardino iraniano di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha

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 Il mio giardino iraniano  è il terzo film della coppia  Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha,  il primo The Invincible Diplomacy of Mr. Naderi era un documentario; il secondo, un film di finzione, venne presentato al  Festival di Berlino in occasione dell’edizione 2021 che a causa del COVID si tenne online; era un film eccellente  che in Italia non è arrivato intitolato La ballata della mucca bianca, ed è uscito solo su MUBI. 

Il mio giardino iraniano  arriva invece direttamente nelle sale, forse anche cercando almeno in parte di intercettare e l’eco che produrrà da qui a un mese l’altro atteso film iraniano (ma di produzione tedesca) Il seme del fico sacro  di Mohammad  Rasoulof che si giocherà l’Oscar come migliore film straniero con Emilia Pérez. Anche Il mio giardino iraniano è stato presentato un anno fa a Berlino (ma il titolo internazionale suonava My Favourite Cake), senza che i registi avessero ricevuto il permesso di intervenire alla prima mondiale. Rispetto al film precedente che ancora si situava in quel confine, assai tenue, fra il lecito e l’illecito, i due registi hanno deciso di compiere un passo ulteriore, rifiutandosi di sottostare alle convenzioni e ai divieti che avrebbero consentito una libera distribuzione del film anche nel loro paese natale. La scelta più vistosa compiuta dai registi è di non accettare che le donne anche in casa portino lo hijab, quello che comunemente viene chiamato il velo. Siccome nella realtà nessuna donna lo fa e siccome i due registi hanno voluto girare un film realista, hanno deciso di non obbedire alle prescrizioni. Come se non bastasse: il film mostra che la protagonista Mahin tiene in casa un bottiglione di vino, e che Mahin interviene con coraggio al cospetto degli abusi della polizia morale per difendere una ragazza colpevole di portare il velo non come prescriverebbe la legge islamica. Siamo insomma in presenza di quello che un tempo si sarebbe chiamato un film di denuncia? Ma certo! Eppure non è questo intento, quello che ai due registi più interessa.

Credo di poter affermare che i registi più di ogni altra cosa si siano limitati, con toni a tratti anche piuttosto spensierati, a voler raccontare la vicenda di una vedova settantenne, figli e nipoti fuori dall’Iran, che a un certo punto prova a rimettersi in gioco, a trovare un uomo con cui trascorrere gli ultimi anni della sua vita.  Solo che, anche questo più che legittimo desiderio, rischia a più riprese di fare a pugni con le leggi vigenti, con i vicini intriganti etc.

Lily Farhadpour

Mahin è un’infermiera in pensione, che vive sola, in una casa forse ormai anche troppo grande, in una zona che intuiamo periferica di Teheran (a un certo punto si dice che è una zona non mappata dal catasto). La casa ha anche un giardino piuttosto spazioso. Il film si apre con una sequenza sceneggiata e girata piuttosto bene, alquanto esilarante, un pranzo con coetanee, più o meno in corrispondenza del compleanno della protagonista. È in seguito a questa festicciola che Mahin capisce che forse è giunto il momento di provare a cercare qualcuno con cui trascorrere un po’ di tempo. Detto fatto: basta poco e Mahin trova un veterano (guerra Iran-Iraq) che adesso arrotonda la magra pensione facendo il tassista (neanche i veterani vengono trattati granché dal regime, l’unico beneficio è la tomba gratuita, figuriamoci). La donna prende l’iniziativa e, fra mille sotterfugi, se lo trascina a casa, trascorrendo insieme a lui una lunga serata a cucinare, mangiare, bere, fare piccole riparazioni, ballare, fare la doccia (una delle scene più surreali del film), come a recuperare in un’unica serata tutta una vita, tutto quello che la vita avrebbe potuto concedere sia a lui che a lei.

Lili Farhadpour e Esmaeel Mehrabi

Senza nulla togliere all’importanza politica, civica e all’universalità del tema (l’amore nella terza, nella quarta età, il legittimo desiderio di non morire soli),  il film è, soprattutto nella seconda parte decisamente molto teatrale, sia sul piano della regia che della sceneggiatura, risulta piuttosto prevedibile; soprattutto come andrà a finire lo si capisce con un discreto anticipo, a tratti si ha pure la sensazione che, anche in grazia della navigata professionalità degli attori, i registi diano spazio a un po’ di improvvisazione. E la leggerezza con cui  Il mio giardino persiano  inizia non viene mantenuta lungo tutto l’arco narrativo che, invece, in diversi punti finisce per virare un po’ nel patetico.

Resta forte l’auspicio che un giorno un film del genere (fortemente sostenuto da numerosi coproduttori europei) si possa mostrare a tutti, possa liberamente uscire nel paese che l’ha prodotto.

Presentato in Concorso al Festival di Berlino 2024
In sala dal 23 gennaio 2025. 


 Il mio giardino persiano  (Keyke Mahboobe Man) – Regia e sceneggiatura: Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha; fotografia: Mohammad Haddadi; montaggio:  Ata Mehrad, Behtash Sanaeeha, Ricardo Saraiva;  interpreti: Lili Farhadpour, Esmaeel Mehrabi, Mansoore Ilkhani, Soraya Orang, Homa Mottahedin, Sima Esmaeili; produzione: Filmsazan Javan, Caractères Productions, Hobab, Watchmen; origine: Iran/ Francia/ Svezia/ Germania, 2024; durata: 97 minuti; distribuzione: Academy Two.

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