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Non c’era probabilmente modo migliore di continuare a raccontare il cinema alle sue origini se non quello di rivolgersi ancora una volta al vastissimo e ricchissimo catalogo di “vedute” dei Fratelli Auguste e Louis Lumière: dopo aver realizzato Lumière-La scoperta del cinema (2016), che conteneva 114 film , Thierry Frémaux, delegato generale del Festival di Cannes ma soprattutto profondo studioso e conoscitore dell’opera dei Lumière come direttore dell’istituto che porta il loro nome, espande ulteriormente questo orizzonte di conoscenze, documenti, intuizioni e posizionamenti che attraversano e innervano ogni tempo del cinema, incluso quello contemporaneo: Lumière – L’avventura del cinema, un titolo italiano che, per una volta in maniera pertinente, rimanda alla dimensione di ricerca e sperimentazione dell’esperienza raccontata (sintetizzata in francese da un punto esclamativo, le Cinéma!) propone infatti altri 120 lavori, della durata di circa 50 secondi ciascuno, porta avanti una riflessione che appare evidente pur nel puro godimento di questa sorprendente visione; in quei micro frammenti infatti sono contenuti già tutti i generi, le forme, le direzioni possibili e immaginabili del linguaggio cinematografico cosi come lo conosciamo e lo fruiamo anche oggi . Basti pensare alla triplice versione di uno dei loro film più celebri, L’uscita dalle officine Lumière a Lione, proiettato insieme ad altri dieci durante il primo spettacolo cinematografico avvenuto in pubblico il 28 dicembre 1895 a Parigi. Già il fatto che esistessero più riprese della stessa situazione è la testimonianza, che essendo in pellicola ha una sua sostanza materica e tangibile contro le impalpabili alterazioni e manipolazioni della produzione digitale, di un pensiero già autoriale, dell’input di una messa in scena appartenente ad un punto di vista, ad un modo di vedere le cose.

La macchina da presa non si limita a registrare ciò che appare davanti agli occhi di chi filma, ma lo fa fluire all’interno di una prospettiva e di una parzialità che in quanto tali includono anche ciò che non si vede e spingono lo spettatore ad uscire fuori dai confini dell’inquadratura. Questo è possibile solo mettendo in relazione, con una lucidità e una consapevolezza in progress, il campo, ovvero lo spazio e il tempo che delimitano l’azione traslata in rappresentazione, e il fuori campo, il resto che non entra nell’inquadratura, ma verso il quale il dinamismo del linguaggio cinematografico conduce o quantomeno crea una continuità. Dove stanno andando gli operai, una volta usciti dallo schermo? E il treno in arrivo alla stazione di La Ciotat da dove arriva e dove continua il suo viaggio? Immedesimarsi in coloro i quali assistevano a queste proiezioni iniziali, in un momento ancora precedente alla nascita di quello che sarebbe poi stato uno specifico pubblico cinematografico (altra riflessione che entra nel processo creativo dei Lumière come mette in evidenza Frémaux) significa rivivere il terrore e lo smarrimento e poi lo stupore e l’attrazione verso il poter ritagliare un segmento di realtà ed aumentarne la percezione, l’impatto, la spettacolarità. L’espressione di una quantità di emozioni, esperibili in quei soli e precisi 50 secondi, che non avrebbe potuto avere una simile forza e capacità di rimanere impressa, nonché di durare ed evolversi, senza la mediazione di un soggetto che ha scelto il punto nel quale collocare l’antesignana cinepresa rispetto ad uno specifico contesto e ha deciso inoltre chi, cosa e come dovesse attraversare e quella determinata veduta. Quest’ultimo aspetto rientra nell’ambito di una comprensione più profonda delle potenzialità del mezzo che già da subito i Lumière vogliono esplorare, e che Frémaux esplica attraverso l’utilizzo di una voce off a commento della consequenzialità con cui i filmati sono stati montati in successione, come se si trattasse del lungometraggio che Louis e Auguste, a causa dei limiti tecnologici, non sono mai riusciti a realizzare.

Dall’osservazione della quotidianità delle propria grande famiglia al seguire le gesta e le performance della famiglie di acrobati e circensi, forme di spettacolo estremamente popolari nell’Europa di fine ottocento, ma anche quelle di maghi e di illusioni, con una sostanziale differenza rispetto all’ opera di George Méliès, il loro speculare alter ego: l’elemento realista, umano, intimo dell’uomo prima dell’artista e dell’artificio rimane sempre presente e risponde all’assunto di Agnès Varda con cui si apre il film di Frémaux: non stiamo guardando i nostri antenati, ma stiamo guardando noi stessi grazie alla specificità riconoscibile di quei piccoli mondi che possono essere definiti antichi per un mero dato anagrafico, ma che sono visti con gli stessi occhi con cui sarebbero stati visti in futuro; anzi, non si fa certo una forzatura se si considera essi stessi il futuro de cinema. La pluralità di intenti è suggerita da una delle immagini iniziali, quelle della prua di una barca in mare aperto, una visuale praticata dai Lumière, anche se meno conosciuta in confronto a quelle dei treni filmati frontalmente o nella vertigine di una semi soggettiva rasente il tetto di una locomotiva, inebriata dal fumo bianco. La circumnavigazione in immagini di territori inesplorati da cinematografie e immaginari, un linguaggio che crea collegamenti e risonanze in flashfoward: cosi la famiglia giapponese ripresa ad altezza di tatami è l’anticipazione degli interni domestici del cinema di Yasujiiro Ozu, la fenomenologia ante litteram di una poetica; anche se non bisogna spingersi tanto lontano per ricercare i prodomi di un linguaggio che verrà e che sarà in grado addirittura di farsi meta, riflessione di se stesso e delle sue pratiche. Tra i momenti memorabili di quest’unicum composto da 120 piani sequenza ci sono le riprese di chi riprende, chiede lo stop per una scena, viene spiazzato da un movimento o un evento inatteso. Fare cinema e il documentate il fare cinema, un anello di congiunzione tenuto a mente, concettualizzato e messo in atto dalle Nouvelle Vague di tutto il mondo dopo essere stato spinto fino alle più radicale e trasparente manifestazione nell’opera post neorealista di Roberto Rossellini (ricondotto da Frémaux ai Lumière come invece Fellini viene riportato a Méliès, ovvero la realtà per quello che è e la realtà ricostruita dall’immaginazione/onirismo/inconscio ). E in anni nei quali si parla di narrazioni precostituite e applicate, che arrivano prima dello sguardo, è veramente ispirante scoprire come l’accumulo di situazioni potesse produrre ulteriori visioni e racconti, un passaggio ben esemplificato dal refrain della prima veduta Lumière con una vera e propria storia, L’innaffiatore innaffiato, in un film successivo dove, alla rappresentazione della discussione animata tra due giocatori di carte, si sovrappone la gag dell’innaffiamento, introducendo peraltro l’autocitazione, il riconoscimento di una propria poetica.
Il sentimento con cui si esce da una visione tanto fluviale quanto stratificata di una kermesse in grado di restituire la tridimensionalità del reale nella profondità di campo del cinematografo è quello di una pienezza senza sazietà: la voglia di ritrovare i film che abbiamo amato, che amiamo e che ameremo nella magica epifania di quegli shorts, fotogramma dopo fotogramma.
In sala dal 3 aprile 2025.
Lumière – L’avventura del cinema (Lumière, le Cinèma!) – Regia e sceneggiatura: Thierry Frémaux; montaggio: Jonathan Cayssials, Simon Gemelli, Thiérry Fremaux; musiche: Gabriel Fauré; voce narrante: Thierry Frémaux (in italiano: Valerio Mastandrea); produzione: Institut Lumière/Sorties d’Usine Productions; origine: Francia, 2024; durata: 105 minuti; distribuzione: Lucky Red, Cineteca Bologna.
