C’era una volta mia madre di Ken Scott

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Può l’amore di una madre cambiare l’avvenire di un figlio? Ma mère, Dieu et Sylvie Vartan ( titolo italiano un po’ diverso: C’era una volta mia madre) afferma di sì. Esther (Leïla Bekhti) è una eccentrica madre ebrea di cinque figli di età dai dieci ai tre anni, è incinta di nuovo, ha una grande pancia e la disinvoltura che la fa andare in ospedale con le contrazioni in metropolitana da sola. Partorisce con l’aria di chi sa il fatto suo. Si stranisce che non le fanno vedere il neonato, c’è qualcosa che non va, cosa succede, aiuto. Il ginecologo le rivela la realtà: il bambino ha un piede equino, si tratta di una malformazione che gli renderà impossibile la deambulazione, è un handicap ma ci sono delle soluzioni, la migliore fargli indossare a vita un tutore al piede per consentirgli di camminare eretto. Esther sa di non volere un destino da handicappato per il figlio e lotterà tutta la vita, contro tutto e tutti, affinché non sia così.

Convinta nel profondo, declama un futuro diverso: figlio mio, tu avrai una vita favolosa, un matrimonio meraviglioso, una esistenza rosea costellata di successi, te lo prometto, a ogni costo. La donna chiama il figlio con l’appellativo Michkpara, che in arabo vuol dire Ti do la mia vita: è questo che la madre pensa, ti dono la vita ogni volta che stiamo insieme perché è mio unico interesse la tua felicità. È una madre all’ennesima potenza, una madre che fa tutto, che vuole sapere tutto, che pensa di capire il figlio, anzi di poter essere l’unica a comprenderlo solo per il fatto di averlo generato, difetto o meno, carponi e diritto come gli altri cinque fratelli, tre sorelle e due fratelli. Attorno a Roland il clima è premuroso e gentile, è coinvolto nei giochi in giro per la casa, sebbene ne possa fare parte a suo modo, spolverando il pavimento (gli mettono sulle ginocchia dei panni acchiappa-polvere) strisciando avanti e indietro nel corridoio con abili peripezie

Per i primi sette anni di vita di Roland, madre Esther consulta decine di ortopedici che, alla fine, dicono più o meno tutti la stessa cosa: operazioni, fisioterapia, altre operazioni e alla fine, sicuramente un tutore. Demonizzando la madre l’immagine dello zoppo, lasciando il piccolo strisciare per casa con le gambe a penzoloni, facendogli vivere ogni visita medica come quella decisiva, che consentirà il miracolo, Roland asseconda i desideri materni, senza una lamentela, partecipe come fosse qualcosa fuori di lui. La piattola – come Esther ha soprannominato l’assistente sociale Madame Fleury (Jeanne Balibar) – frequenta la casa con regolarità minacciando di portare via il bambino se non verrà scolarizzato. La madre non vuole, teme la crudeltà dei coetanei, non vuole mostrarlo con un handicap visto che, da un momento all’altro, attraverso un miracolo divino o grazie a una cura miracolosa, Roland starà in piedi sulle sue gambe. Esther prega, prega ogni giorno, prega tanti santi diversi, accende candele, crea altarini, cucina e prega. Lo spirito è sempre positivo, la donna è sempre sorridente, misura tutti i figli alla porta della cucina, Roland dal busto in su cresce, ogni anno, un poco anche lui.

Sullo sgabello al termine delle scale dello studio dell’ultimo stregone trovato da un cugino in Marocco, Monsieur Virgepoche, raggiunto un mese dopo la sua morte, comunicata dalla vedova sull’uscio, Roland si rivolge alla madre con il vezzeggiativo Michkpara (ti do la mia vita), stremato dal vedere la madre sempre delusa, disperata fino alle lacrime. No, è contro natura che un figlio dica questo alla madre, il dare la vita può avvenire solo in una direzione, da più grande a più piccolo, il bambino non può dare la vita per la madre, mai, per nessuna ragione, sarebbe l’opposto dei miracoli, sarebbe innaturale, sacrilego. Nell’androne del palazzo vengono raggiunti dalla vedova Virgepoche: è decisa a provare a curare Roland a patto che i suoi ordini vengano eseguiti alla lettera. Esther è felice, sente che quella è la strada giusta. Torna a casa, sposta tutti i mobili del salotto, installa il letto da ospedale per il bimbo, compra busto e tiraggi: inizia la tortura che, si spera, conduca al miracolo. Madame Fleury si presenta con le guardie, pronta a portare via Roland alla madre che, a suo avviso, non sta facendo il suo bene. Esther chiede una piccola ultima proroga, questa cura funzionerà. In cambio la Fleury pretende che il bambino impari almeno a leggere.

Il fratello Jacques viene designato come colui che insegnerà a Roland la lettura. Il bambino è resistente, fa fatica, annaspa. Finalmente impara quando capiscono che l’unica chance è passare attraverso la musica: alla tele vede l’intera programmazione televisiva, dalla mattina alla notte, è invaghito perso di Sylvie Vartan, conturbante cantante bulgara naturalizzata francese, regina dello yé-yé, sposata col rockettaro Johnny Hallyday, una unione che per decenni fa sognare tutta la Francia, la famiglia di Roland inclusa: dai testi delle canzoni della cantante comincia a riconoscere le lettere e le parole.

Sylvie Vartan

Le vicende della vita di Roland si dipanano sotto gli occhi dello spettatore partecipe e divertito, Roland adulto è interpretato dal bravo e buffo Jonathan Cohen, grande colpo di scena la presenza reale di Sylvie Vartan che diventa personaggio della storia: tutto vero, la trama è tratta dal romanzo omonimo di Roland Perez, il film è fedele al volume, siamo stati testimoni di una vita incredibile e favolosa, quella che Esther aveva promesso al figlio sfortunato, quella che la sua ostinazione di madre (molto superiore alla media delle madri) pretendeva dal fato.

La predizione della maestra di ballo delle elementari – Non riuscirai mai a liberarti di quella donna, stronzetto – ha un esatto contrappunto nella scena in cui Roland adulto impreca al cielo perché la madre è riuscita a fare come voleva, anche per interposta persona.

Sul finale la voce fuori campo recita: Uno scrittore inglese ha detto: Dio non poteva essere dappertutto, così ha creato le madri. In realtà si tratta di un proverbio ebraico. Esther di sicuro lo conosceva.

 

In anteprima al RENDEZ-VOUS – Festival del Nuovo Cinema Francese.
In sala dal 4 dicembre 2025.


C’era una volta mia madre (Ma mère, Dieu et Sylvie Vartan)Regia e sceneggiatura: Ken Scott; fotografia: Guillaume Schiffman; montaggio: Dorian Rigal-Ansous, Yvann Thibaudeau; musica: Nicolas Errera; interpreti: Leïla Bekhti, Jonathan Cohen, Joséphine Japy, Jeanne Balibar, Anne Le Ny, Lionel Dray; produzione: Égérue Productions, Gaumont;; origine: Francia/Canada, 2025; durata: 102 minuti; distribuzione: Bim distribuzione.

 

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