La battaglia del Dottor Semmelweis di Lajos Koltai

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I film biografici, specialmente se riguardano personaggi che hanno acquisito una reputazione di eroi o, ancora più prosaicamente, di salvatori, sono estremamente insidiosi e fraintendibili, perché si prestano a letture e rappresentazioni (auto) celebrative ed edificanti. Purtroppo questa terza regia dell’acclamato diretto della fotografia ungherese Lajos Koltai, abituale collaboratore di Istvan Szabo e poi in Italia di Giuseppe Tornatore, non riesce a svincolarsi dalla maglie di una retorica nazionalista che vuole restituire lustro, nonché far conoscere ad un vasto pubblico, la storia del dottor Ignác  Semmelweis, in un particolare, significativo momento della sua attività e della sua vita: nel 1847, neanche trentenne, si distinse in una rinomata clinica ostetrica di Vienna, riuscendo a sventare un’apparentemente incomprensibile epidemia di febbre che uccideva la madri e i figli appena partoriti, con un esuberante numero di casi in particolare nell’istituto dove operava Semmelweis, sotto la direzione dell’ostile dottor Klein. Un contesto storico e biografico ampliamente e dichiaratamente romanzato, quasi a volerne fare la metafora del racconto epico dello spirito di una nazione- all’epoca era massiccia la presenza di medici ungheresi nei paesi di lingua tedesca- che con una coscienza, una tenacia e una fermezza non corruttibili come invece poteva accadere, si suggerisce, in paesi economicamente e socialmente più sviluppati e progrediti. Lo zelante Koltaj, pur raccontando una storia nera di morte e di malasanità, la ammanta cosi di una luce di speranza e di fiducia che entra attraverso i vetri dei padiglioni dell’ospedale, dov’èqausi completamente ambientata la vicenda. D’altro canto il film si apre con le urla disperate di una donna incinta, anche se “perfetta” nel suo costume d’epoca, incorniciata nell’apparato scenografico e spenta, nella potenziale sguaiatezza del suono stridulo che produce , dal tono calibrato, razionale, piuttosto diluito (siamo oltre le due ore) del racconto.

Non è lei la protagonista- sarà però una delle prime vittime, a chiedere tra l’altro la pietà di un vero funerale e non la sepoltura in una fossa comune- ma da il passo al proseguimento, tutto concentrato sulle azioni e le reazioni dei personaggi, degli avvenimenti successivi. La drammaticità è infatti solo enunciata dai fatti, visto che le immagini hanno la volontà di restituire una levigatezza e una patina che attutisce qualsiasi spigolosità e durezza, a cominciare dall’aitanza e dalla bellezza dell’attore che interpreta Semmelweis: non particolarmente espressivo, ma di grande presenza, come a indicare già l’allure di distacco iconico e trionfale, per non dire cristologico visto i richiami nella barba incolta, nei capelli lunghi e negli occhi chiari secondo una figura di Gesù molto occidentalizzata ed eurocentrica. D’altronde, anche simbolicamente, è colui che salva le madri e i figli e viene tacciato a un certo momento di essere una sorta di stregone, un negromante che cerca la cura sui cadaveri dei morti. Continuando su questa lettura, anche la figura della tremante ma intrepida infermiera Emma, accusata di essere stata l’amante del direttore del precedente ospedale nel quale aveva lavorato, potrebbe essere la parafrasi di una Maria Maddalena scacciata e mortificata che sceglie di stare vicino e di amare all’unico uomo che non la giudica. Koltai rimane comunque sul piano della narrazione e incede tra intrighi, giochi di potere, la scoperta dell’amore e la minaccia del tradimento, con delle facce che sfiorano il cliché della soap opera da daytime statunitense, come quella del “cattivo” avversario di Semmelweis, o della povera sorella cieca di Emma che vive in un orfanotrofio, oppure ancora la burbera capo infermiera e l’ostetrica sedotta e abbandonata. Ci sono delle cose che piacciano e trovano concordi, almeno dal punto di vista del posizionamento politico della storia: in primis la critica al classismo di genere dell’ambiente ospedaliero, nel quale le donne sono o puerpere a cui far espellere il neonato senza lasciare loro la scelta sul come e su quello che succederà subito dopo, o, appunto, ostetriche, trattate alla stregua di serve a cui impartire ordini, senza considerarne l’esperienza e la competenza. Il didascalismo enunciativo della sceneggiatura non ci risparmia comunque l’arringa finale contro il patriarcale mondo della medicina ufficiale, che detto così potrebbe apparire in realtà anche come un attacco alla scienza che ignora e sottovaluta l’aspetto esperienziale e relazionale del prendersi cura ( una qualità di cui sono le donne, in maniera ugualmente retorica ma almeno efficace, a farsi portavoce).  Il paradosso sta nel fatto che tutto quello che può essere rintracciato come un limite- lo schematismo e l’aria da cinema leccato che i giovani turchi della Nouvelle Vague avrebbero chiamato di “papà”- viene amplificato e portato letteralmente alla luce del sole, quasi a voler creare un corto circuito spaziale e temporale con un cinema d’altri tempi, di vocazione popolare, di robusto piglio narrativo, come si soleva dire…inutile cercare ambiguità ed opacità allora, la battaglia di Semmelweiss si consuma ad un livello esteriore, tanto che il presunto senso di claustrofobia che dovrebbe comunicare l’ambientazione perimetrata e chiusa non si avverte mai, tanta è la concentrazione sui primi piani, gli sguardi, le figure in tensione verso un futuro, e un orizzonte, di riscatto e di affermazione. Se si pensa ad un recente film per certi versi analogo, Campo di battaglia di Gianni Amelio (in quel caso era l’adattamento di un romanzo di Carlo Patriarca), qui manca completamente l’elemento mortifero e fantasmatico, la nebbia e l’oscurità dei corpi che si ammalano e muoiono per una pandemia, qualcosa di misterioso e di oscuro che almeno il film di Amelio cercava di cogliere e di restituire. Le pazienti del dottor Semmelweis sembrano invece non morire mai veramente, la portata di quella sofferenza e di quella tragedia non affonda ma resta sulla superficie di un’estetica  che risulta gradevole e al tempo stesso stridente, non riscattato pienamente dall’afflato romantico della storia d’amore. Non si passa insomma dalla polarità del biopic glorificante allo straniamento dell’eccesso, si resta saldi e ancorati sulla terra di mezzo di un intrattenimento, non troppo spettacolare per non distogliere l’attenzione da ciò che si vuole comunicare, ovvero la statura scientifica, morale e umana di un grande uomo ungherese.

Peccato che viviamo in un altro mondo e in un altro tempo, in dissonanza rispetto alle soluzioni offerte da  qualsiasi tipo di eroe e di salvatore; una pandemia cinematografica contro la quale opponiamo gli anticorpi della realtà e dell’immaginario.

In sala dal 14 agosto 2025.


La battaglia del Dottor Semmelweis (Semmelweis)Regia: Lajos Koltai; sceneggiatura: Balazs Maruszki; fotografia: Andras Nagy; montaggio: Zoltan Kovacs; musica: Atti Pacsay; interpreti: Miklos H. Vecsei, Katica Nagy, Laszlo Galffi, Tamas Kovacs, Timea Virga, Blanka Meszaros; produzione: Tamas Lajos, Jozsef Vida; origine: Ungheria,2023; durata: 127 minuti; distribuzione: Unicorn.

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