Festival di Venezia (28 agosto – 7 settembre 2024): Campo di battaglia di Gianni Amelio (Concorso)

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Sotto le mentite spoglie del racconto storico, Gianni Amelio tratta e ci vuole parlare con grande, vivida forza, del nostro presente nel suo ultimo lavoro Campo di battaglia, passato oggi in Concorso a Venezia e subito in sala dalla settimana prossima. Infatti, cosa c’è di più drammaticamente attuale nel presente, se non la guerra (anzi le guerre e sempre più minacciosamente sul punto di coinvolgere tutto il mondo), oltre ad una devastante pandemia appena conclusasi?

Per raccontare cinematograficamente fatti così tragicamente scottanti, il regista calabrese si è liberamente ispirato al libro, quasi profetico, di Carlo Patriarca, La sfida (2018, ripubblicato da Neri Pozza, 2020) – lui stesso medico e dirigente di un reparto di Anatomia Patologica – per riportarci ai tempi della fine della I Guerra mondiale.

Siamo nell’autunno del 1918 in un ospedale militare del Trentino nelle vicinanze del fronte, dove insieme lavorano due ufficiali medici, Stefano (Gabriel Montesi) e Giulio (Alessandro Borghi), amici dall’infanzia e dove ogni giorno arrivano i soldati feriti più gravemente in battaglia. Molti di loro, però, sono dei simulatori e si sono procurati da soli le ferite per imboscarsi e non continuare così a combattere.

Alessandro Borghi

L’atteggiamento verso tale situazione che si ripete di continuo tra le brande, da parte dei due protagonisti è diametralmente opposto: il primo convintamente patriota e di famiglia altoborghese, con un padre che lo vorrebbe in politica, è quasi ossessionato da queste simulazioni e agisce con durezza smascherando senza pietà, quasi da sbirro, ogni tentativo di inganno. Sino a punire con la fucilazione un simulatore. L’amico, invece, che vorrebbe fare ricerca ed è portato per la biologia, ha un punto di vista più comprensivo e tollerante, tanto da divenire segretamente una sorta di “sabotatore” che aiuta i malati ad aggravarsi tanto da far sì che vengano rispediti a casa, anche storpi anche mutilati, ma non al fronte in quanto inabili alle armi. Ed infatti da loro è chiamato la “mano di Dio”.

Ai due antagonisti (ma mai dichiarati se non nelle pieghe riposte del discorso) si aggiunge, a chiudere un ideale terzetto, Anna (Federica Rosellini), amica di entrambi dai tempi dell’università, che lavora con passione in ospedale come volontaria della Croce Rossa e che sconta il fatto di non poter essere diventata essa stessa medico, pur avendone tutte le qualità, dato che all’epoca tale carriera era praticamente preclusa ad una donna, se non in casi del tutto eccezionali.

In queste circostanze nelle quali Anna comincia lentamente a sospettare degli strani maneggi di Giulio, interviene come un flagello di Dio, una febbre, una terribile infezione che comincia a diffondersi sempre più nei malati e che diventa più letale dello stesso conflitto bellico. Si tratta della cosiddetta “spagnola”, sino ad oggi la più grave forma di pandemia della Storia dell’umanità che tra il gennaio del 1918 e il dicembre del 1920 ha procurato dai 20 ai 100 milioni morti e senza che la medicina all’epoca potesse farci nulla. Ma il film di Gianni Amelio si ferma ben prima, arrestandosi già alla vittoria dell’Italia nella I Guerra mondiale, con delle conseguenze decisive, però, anche sui protagonisti di Campo di battaglia.

Tornato al Lido di Venezia a due anni da Il signore delle formiche, Amelio ci consegna un film duro, a tratti quasi respingente, ma di certo più riuscito del precedente che, come si ricorderà, trattava del caso Braibanti. E se come allora si rifletteva sul passato per interloquire con il presente, qui però le dimensioni della catastrofe sono infinitamente più grandi e con maggior perizia artistica in termini di  di dise-en-scène. Anche se poi Campo di battaglia è un’opera senza grandi sequenze spettacolari di battaglie o una morale antimilitarista esplicita come – per restare al cinema di casa nostra – nel celebre Uomini contro (1970) di Francesco Rosi. Amelio che ha scritto la sceneggiatura insieme ad Alberto Taraglio, combatte non di spada ma di fioretto, il suo film cresce e si sedimenta lentamente nella memoria (almeno così è accaduto a chi qui scrive), al di là del primo impatto che potrebbe lasciare interdetti o poco convinti sulla bontà del risultato finale.

Nella delineazione e descrizione dei due antagonisti – un plauso particolare va a tutti gli attori e alle tante comparse da ogni parti d’Italia nei ruoli dei soldati malati – non c’è, infatti, una manichea, netta distinzione tra buoni e cattivi, perché nel corso dei minuti veniamo a riconoscere anche il lato oscuro di Giulio, e quanto alla fine resta impresso nella mente è un profondo senso di sconfitta e di frustrazione, pur nella gioia apparente della vittoria bellica da parte dell’Italia.

Insomma, le carneficine, la guerra non è mai una soluzione, e l’ultima opera di Amelio ce lo ricorda una volta di più. Speriamo dunque che il pubblico, al di là di una tematica tanto ostica e assai poco di moda, possa concedere una chance di successo a un lavoro che definiremmo, senza alcuna voglia di fare retorica, di alto, nobile valore civile. Come lo era stato a suo tempo anche il già ricordato film di Francesco Rosi.

In sala dal 5 settembre 2024


Campo di battaglia – Regia: Gianni Amelio; sceneggiatura: Gianni Amelio, Alberto Taraglio; fotografia: Luan Amelio Ujkaj; montaggio: Simona Paggi; musica: Franco Piersanti; scenografia: Beatrice Scarpato; interpreti: Alessandro Borghi, Gabriel Montesi, Federica Rosellini, Giovanni Scotti, Vince Vivenzio, Alberto Cracco, Luca Lazzareschi, Maria Grazia Plos, Rita Bosello; produzione: Kavac Film, IBC Movie, One Art, con Rai Cinema; origine: Italia, 2024; durata: 104 minuti; distribuzione: 01 Distribution.

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