Flee di Jonas Poher Rasmussen

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Se il cinema, come sosteneva Andrej Tarkovskij, è l’arte di scolpire il tempo , non c’è dubbio che un film come Flee contenga nel suo orizzonte espressivo questa prospettiva teorica e poetica, che si traduce anche e soprattutto in una pratica: trasfigurare l’esperienza vera del viaggio di un profugo afghano attraverso una commistione di codici linguistici appartenenti al documentario e al cinema d’animazione, partendo dall’intervista/conversazione che il regista Jonas Poher Rasmussen ha avuto con il  suo amico rifugiato Amin Nawabi (uno pseudonimo, per garantirne la privacy) riguardo alla storia della sua vita.

Per restituire forma e sostanza a un  tempo così denso e insieme diluito,  c’era la necessità fondamentale di ricostruire quel processo che dal tempo viene generato e nel tempo si riproduce in continuazione, seguendo i moti e gli spostamenti del proprio immaginario interiorizzato e contaminato dai sentimenti , i pensieri, la tensione verso il sogno e il riscatto, e la vertigine dell’incubo e del trauma. La memoria è la parte che manca alla storia di Amin, strumento per scolpirsi dentro il passato di sopravvissuto che riemerge come una nebulosa informe dal tratto realistico e bidimensionale del disegno. La necessità di colmare l’horror vacui in cui sembra essere precipitata la sua identità frammentata , a cominciare dalla lingua madre sperduta tra l’arabo dell’infanzia pre esodo, il russo dell’adolescenza clandestina e il danese  del cittadino cosmopolita, è contenuta  fin dalla prima inquadratura, con  il  volto ripreso frontalmente  e attaccato ad una parete , quasi come in un interrogatorio,  e con alle spalle quello che potrebbe essere un tappeto dal ricamo orientaleggiante, già rimembranza di un ricordo;  è lui il protagonista, eppure non riesce a prendersi il centro dell’inquadratura, ma si mette troppo in basso , con il volto coperto e un atteggiamento sfuggente, invitato dal regista ad esporsi , a prendere un’ altra posizione, letteralmente e simbolicamente.

 

Forse nessuna immagine potrebbe esprimere meglio, in questo esatto e preciso momento di proliferazione esponenziale del numero di profughi provocato dalla guerra esplosa nell’Ucraina cosi prossima (più prossima dell’Afghanistan sicuramente) al nostro sicuro e privilegiato Occidente, quel senso di frustrazione, umiliazione, paura che prova una persona privata improvvisamente di tutto, ed esposta allo sguardo altrui , di cui attira al tempo stesso la centralità di un’ attenzione morbosa ( tra egotico senso di colpa e autentica pietas) e la marginalità di essere comunque un’ esistenza, un ‘esperienza e una storia da tenere ai margini, da accogliere ma non da introiettare. L’aspetto di Flee che più ci riguarda da vicino  è proprio la presenza in campo di Rasmussen, che ha inserito nell’animazione se stesso e la mdp con cui ha realizzato l’intervista ad Amin, smontando dall’interno le categorie del reportage giornalistico  da una parte e della testimonianza umanitaria d’altra, per provare a far emergere spontaneamente, dall’intimità della relazione, quello che fino a quel momento non era stato e non poteva essere detto ad alta voce. Ne viene fuori la singolarità di un individuo a cui è capitata in sorte, almeno fino alla soglia della sua età adulta, una vita improntata al fuggire , come riassume eloquentemente la traduzione del titolo, e al nascondersi, nonché al dover omettere, in nome di una sopravvivenza ulteriormente strozzata dall’avidità mercenaria e dall’ottusità burocratica, la verità sulle proprie origini ( Amin è costretto a dichiararsi orfano e a separarsi dalla sua famiglia per poter approdare al porto sicuro offerto dalla Danimarca).

Il suo viaggio iniziatico non ha però nulla di epico e di visionario , non c’è la potenza e l’assoluto della nave avvolta dalla notte e dalla nebbia nella traversata del giovane, tormentato greco  Stavros ne Il ribelle dell’Anatolia, capolavoro di Elia Kazan in cui la destinazione agognata , New York, è ammantata  da una speranza di sangue e riscatto, promessa fatta di terra e intravista nell’orizzonte di un lucido onirismo. La caratteristica di Amin, ciò che riusciamo a leggere dentro i suoi occhi costantemente pervasi di sgomento e preoccupazione, è invece il pudore, o meglio la reticenza di ricordare non solo, e forse non tanto ,  l’appartenenza ad un popolo o ad una cultura ( non c’è in lui una particolare coscienza politica o quanto meno non è rilevante); vibra sotto la pelle l’insofferenza per il riconoscimento e la costruzione di quell’identità frammentata di cui parlavamo all’inizio e dentro la quale la sua omosessualità ha un peso specifico, l’esplicazione prima ingenua e poi consapevole di un desiderio represso, colpevolizzato e perseguitato in un paese oppresso dalla dittatura islamica (ma talvolta ciò accade anche nella civilissima, cristiana Europa) . Non è un caso che la prima richiesta del giovane Amin alla psicologa del centro di prima accoglienza in cui arriva sia proprio una “cura” per poter guarire dalla sua attrazione verso i ragazzi, in un processo costruito per contrappunto, opposizione, negazione:   perché fino a quel momento l’ossessione dominante e ricorrente era stata quella della fuga, la punizione più atroce l’ espatrio con l’allontanamento forzato da una parte dei propri cari , la  visione evocata più  terribile quella di un Amin ammassato con la madre, il fratello e altre decine di profughi nella stiva fatiscente di una barca pagata a caro prezzo ai loschi organizzatori di quei viaggi della (non) speranza.

Al contrario, sulle onde rassicuranti e familiari della musica pop degli anni ’80, arrivata con una leggera asimmetria temporale tra gli adolescenti afghani, gli unici momenti di innocenza e leggerezza erano stati proprio le corse sfrenate con gli abiti della sorella per le strade di un’ancora quieta e vivida Kabul, o , nel secondo tentativo di fuga nascosto dentro un camion, lo scambio affettuoso e silente della cuffia di un walkman , di un ciondolo e di  un carezza con un altro ragazzino profugo; un momento molto più potente e incisivo della scena tragica della traversata per mare , sovrastata nell’emozione e nell’indignazione  dal flusso ormai quotidiano e roboante di visioni di profughi che ci arrivano dagli schermi di ogni dimensione e natura. Probabilmente il limite di Flee si rivela in questa eccessiva sottigliezza (peraltro toccante in alcuni momenti), nell’ appoggiarsi troppo sui mezzi toni, nella delicatezza del protagonista ai confini con un’ apatia e con un’ afasia che appiattiscono e ridimensionano la portata del racconto , proprio laddove la volontà è quella di fare dello sguardo di  Amin il fulcro di tutta la narrazione e la genesi di ogni immagine.

Come in una pasoliniana soggettiva libera indiretta,  attraverso gli occhi rivolti sul paesaggio desolante di un’interiorità impaurita e spezzata, che non possiede la tensione famelica di un ragazzo di vita o l’ultimo rantolo di saggezza di un uccellaccio, prevale qui il controllo formale dettato più dall’inibizione di un timore reverenziale verso la vicenda umana che dall’ispirazione di un rigore sussultante per gli stupori e i tremori dell’esistenza nel suo stratificato, complesso manifestarsi. Non c’è, ad esempio, profondità, spessore o prospettiva nella scena della prima visita di Amin in una discoteca gay svedese, come se l’imbarazzo tenero e toccante  del tono della sua voce narrante  imbrigliasse l’energia liberatoria di quel ricordo nel pallore di una distanza da polaroid turistica ( espressa in maniera alquanto sciatta e sbrigativa dal punto di vista grafico). A volte dunque la forza sublime ed eterna dello scalpello tarkovskijano lascia il passo all’incertezza transitoria del tratto della matita, ma di momenti memorabili di questo novello Ivan scampato alla potenziale, costante tragicità della propria infanzia e rappresentato nella livida, intensa maturità del presente ce ne sono, e lasciano il segno.

Uno spazio bianco nella distanza tra lo spettro mortifero di un inferno sfiorato tra le braccia di uno sconosciuto e la pulsione gioiosa di un eden quotidiano condiviso spalla a spalla con l’amore di tutta una vita.

Candidato ai Premi Oscar 2022 nelle categorie: Miglior film d’animazione, Miglior documentario e Miglior film internazionale.

In sala dal 10 marzo


Flee Animazione. Regia e sceneggiatura: Jonas Poher Rasmussen; fotografia: Mauricio Gonzalez-Aranda; montaggio: Janus Billeskov Jansen; musiche: Uno Helmersson; produzione: Final Cut for Real, Sun Creature Studio, Cinephil, Left Handed Films, RYOT Films, Vice Studios; origine: Danimarca 2021; durata: 83’; distribuzione: I Wonder Pictures.

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