È avvenuto un miracolo. Nel bel mezzo del deserto è piovuto e si è creato un lago di acqua pura. Il protagonista lo sa, gli hanno detto che è un miracolo, eppure abbassa i pantaloni e vi urina sopra. Lentamente, girando su se stesso. È pazzo? No, è altro, per suo stesso dire: «Io sono satana». In realtà, non si devono disturbare divinità ultraterrene o anticristi vari, però un lato luciferino sì, perché questo caratterizza tanto il film di Nadav Lapid quanto il protagonista: «un uomo che distruggerà Gerusalemme» perché dalla Gerusalemme palestinese è stato cacciato e ora vaga tra sassi e polvere portando con sé rabbia e tanta follia. Mai come ora in essa vi è però altro, dicasi metodo.
Vincitore ex-equo del Premio della giuria a Cannes 2021, anteprima italiana al Med Festival, Ahed’s Knee di Nadav Lapid porta già nel titolo la precisa direzione politica che lo contraddistingue: il ginocchio (knee) è quello di Ahed Tamimi, la Rosa Parks dei diritti palestinesi, e colui che quel ginocchio suggeriva di farlo saltare era Bezelel Smotrich, deputato del partito nazionalista religioso “Casa Ebraica”. Il protagonista, di nome Y. (Avshalom Pollak), regista, sta appunto lavorando ad una biopic dell’attivista quando prende l’aereo per un paesino nel deserto del Negev, Arava, 3000 abitanti all’attivo, per presentare il suo precedente film.
Lì troverà ad attenderlo la giovane direttrice della biblioteca, Yahalom (Nur Fibak), e un modulo da firmare nel quale si richiede l’ammissione di estraneità della pellicola da presunti attacchi alla cultura ebraica. Pare solo una semplice firma, ma in realtà è l’accettazione di ben altro, al di là del film o del paesino di Avara, né più né meno un sopruso nemmeno troppo celato. La pena per la mancata firma, infatti, sarebbe l’esclusione dal mondo artistico, o peggio. Parallelo a ciò c’è però un’altra dimensione, che non è quella di polvere e sassi contesi da due popoli bensì quella personale di un uomo che vuole rimanere in contatto con la madre, oltre la distanza, oltre il cancro che l’ha presa.
Vincitore dell’Orso d’oro 2019 con il precedente, memorabile Synonymes (https://www.closeup-archivio.it/synonymes-concorso), il regista israeliano torna con il suo stile, una pazzia meticolosamente condotta nella quale i livelli narrativi e formali si moltiplicano, si mescolano e danno vita a un film che sogna a occhi aperti, sonnambulo senza freni nella realtà odierna. La pellicola triplica: è quella che si sta osservando, è il film precedente proiettato in Arava, è il film in costruzione («per ora un video-arte») su Ahed Tamini, e la telecamera di comune accordo si fa terzo personaggio, dialoga con Y., entra nella sua testa, ne esce per scambiarsi con gli occhi di Yahalom, si dimentica di entrambi e va a spasso, ricordandosi poi di tornare, viziata e capricciosa. Ciò che ne esce è una poetica cinematografica spuria, sospesa tra un onirico desto, e incredibilmente diretta, o meglio, vitale che una inquadratura decentrata, scomoda, e una fotografia accurata, a volte abbagliante a volte claustrofobica, cercano di seguire.
C’è della vitalità, sì, ma specificatamente direzionata al perturbante, soprattutto dal suo protagonista. Y. è un personaggio buono («ma tu sei buono») però non rinunciatario, è una «creatura demoniaca» che è ripetutamente ferita nel pubblico e nel privato: da una nazione, quella israeliana, che divora quella palestinese, da un cancro, quello inspiegabile, che divora la madre. Questione privata e questione pubblica, mescolate per voce della stessa madre, profetica (Cassandra?) nel dire che «alla fine la geografia vincerà» e a lei richiamate quando il kafkiano Y. vede un campo di peperoni marci e lo trasforma in metafora di una terra martoriata. L’accusa è manifesta («un ministro dell’arte che odia l’arte, un governo che odia l’umanità», «stanno facendo a noi quello che i nazisti fecero a loro») ed è rivolta agli altri personaggi, a tutti, e, soprattutto, a noi, gli spettatori.
È una caduta vorticosa, stretta quella a cui Y. ci costringe. Una caduta nella quale nessuno si può e si deve salvare, nella quale la mdp si rivolta verso lo spettatore, lo prende per mano, lo conduce a bordo di un aereo e salta nel telefono di Y: la sequenza con cui il film ci lascia è il deserto del Negev, striscia di Gaza, ed è inviata alla madre per mostrarle per un’ultima volta quel «miracolo che ha ucciso uomini e animali». Nel riflesso dell’oblò si vede qualcosa brillare ai polsi di Y.. Poi silenzio, complice, i titoli di coda e la sensazione totale di essere colpevoli.
Ahed’s Knee – Haderek – Regia: Nadav Lapid; sceneggiatura: Nadav Lapid; fotografia: Shai Goldman; montaggio: Nili Feller; scenografia: Pascale Consigny; costumi: Khadja Zeggai; trucco: Noa Yehonatan; interpreti: Nur Fibak (Yahalom), Avshalom Pollak (Y.), Yehonatan Vilozni (il sergente), Tzufit Lazara (direttrice del centro culturale), Amit Shoshani (il soldato spaventato), Naama Preis (la direttrice del casting), Netta Roth (la giovane attrice), Yonathan Kugler (Y. Giovane); produzione: Les Films du Bal, Komplizen Film, ARTE France Cinéma, Pie Films; origine: Francia/Germania/Israele, 2021; durata: 109’.