Se non andiamo errati, Drii Winter (cioé Tre inverni tradotto dallo svizzero-tedesco) del regista elvetico quarantenne Michael Koch è il primo della Berlinale 2022 ad aver ricevuto un sia pur timido applauso alla proiezione stampa. Un applauso che tutto sommato condividiamo anche se il film non è privo di difetti, il più vistoso dei quali è che dura troppo, ovvero 136 minuti. E dire che il regista, scherzando, ha affermato in conferenza stampa che il film, adesso, ha assunto le dimensioni di un cortometraggio, visto che la prima versione constava di 5 ore, la seconda di 4, etc. etc.
Come mai questa lunghezza? Facile risposta: Drii Winter contiene al suo interno due film, un film di finzione, pur basato su storie realmente accadute, e un film documentario. Il primo film è una storia d’amore e di malattia, la storia di Anna e Marco (come i protagonisti della canzone di Lucio Dalla). Anna lavora la sera come barista in una locanda del paese montano, cantone di Uri, dove si svolge la vicenda, il giorno come postina, Marco ha un’azienda agricola in montagna e possiede alcune vacche. Ma non è originario del paese, viene dalla pianura, che in tedesco e anche in svizzero tedesco si dice “Flachland” (anche Hans Castorp nella Montagna Incantata veniva dal “Flachland”). È uno straniero quasi, un migrante e per certi aspetti anche un diverso, prova ne sia che beve tè freddo e non birra come tutti gli altri del villaggio e nella locanda se ne sta seduto a un altro tavolo. Le potenziali dinamiche di esclusione va detto non sono al centro del film, lo sguardo sociologico non è lente che Koch privilegia.
Tuttavia, quando dopo qualche tempo Marco si ammala di un tumore al cervello – che provoca anche fastidiosi disturbi di comportamento perché l’ospite indesiderato si è annidato nella parte del cervello che presiede al controllo degli istinti – la pressione da parte di alcuni personaggi del villaggio affinché Marco venga abbandonato a sé stesso diviene piuttosto significativa. E a questa pressione almeno all’inizio cede anche Anna, soprattutto per salvaguardare la figlia che si porta dietro da una precedente relazione e che pure ha preso ormai da tempo a chiamare Marco papà. Solo verso la fine ci ripensa accompagnando il marito nel suo straziante calvario.
Il calvario è punteggiato da alcune canzoni bellissime e malinconiche di stampo religioso, scritte dal fratello del regista, cantate da un coro en plein air che si esibisce ora sotto un costone di roccia ora in riva a un torrente. La storia d’amore e di malattia è raccontata con l’utilizzo di numerosi primi e anche primissimi piani – essi particolarmente fotogenici dal formato 1:66 scelto dal regista – in cui l’attrice e l’attore che di mestiere fanno rispettivamente l’architetta e il contadino (lo stesso mestiere che fa nel film) mostrano un’intensità straordinaria, a dimostrazione che talvolta la distinzione fra attori professionisti e non, è un po’ labile.
Vi è poi il secondo film, a tratti anche più interessante del primo, ed è il film in cui il regista con sguardo antropologico, etnografico descrive il mondo contadino di alta montagna costretto non soltanto a mandare avanti la produzione ma anche ad affrontare una natura impervia e talora inospite. In particolare l’attenzione meravigliosamente rallentata è riservata alle attività stagionali come la fienagione, con le balle di fieno trasferite a valle tramite un ingegnoso sistema di carrucole, nonché agli animali, in particolare alle vacche. Il film implicitamente si regge su una omologia fra mondo animale e mondo umano, entrambi sottoposti alle imperscrutabili leggi di una natura tanto maestosa quanto spietata.
Si capisce che in questa parte del film il regista e la sua troupe a più riprese hanno lasciato la sceneggiatura in albergo e si sono lasciati trascinare dal ritmo e dal fascino di quel mondo. A rappresentare un contrappeso ironico a questo atteggiamento, Koch si concede una breve sequenza bizzarra in cui ci viene mostrata una crew indiana che ha deciso di venir a girare sulle Alpi svizzere un melodramma di Bollywood utilizzando le montagne a mo’ di pure quinte teatrali e perpetuando lo sfruttamento cartolinesco made in Switzerland, dal quale egli, evidentemente, intende distanziarsi.
Nell’insieme è un film di valore, capace di fare entrare lo spettatore in un ritmo altro. Che non è poco. E che verrà in qualche misura ricompensato dalla Giuria, anche perché al momento la quantità di film mediocri in concorso è piuttosto considerevole.
Cast & Credits
Drii Winter – A Piece of Sky; regia e sceneggiatura: Michael Koch; fotografia: Armin Dierolf; montaggio: Florian Riegel; musica: Tobias Koch, Jannik Giger; sound design: Tobias Koch; interpreti: Michèle Brand (Anna), Simon Wisler (Marco); produzione: Hugofilm Features, Zurigo; origine: Svizzera, Germania; durata: 136′.