Premessa: classe 1951, nato a Nancy, regista, sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore, figlio di un docente di cinema, Nicolas Philibert è forse il documentarista francese più celebre, con alle spalle una lunga filmografia che conta più di trenta documentari.
Una carriera iniziata nel lontano nel 1978 quando ha co-diretto insieme a Gérard Mordillat il suo primo lungo documentario, La Voix de son maître: in esso una dozzina di capi di grandi gruppi industriali (L’Oréal , IBM -France, Thomson -Brant, Elf -Erap, Club Méditerranée, ecc.) parlavano di potere, di comando, di gerarchia, del ruolo dei sindacati, abbozzando l’immagine di un mondo futuro, dominato dalla grande finanza. Un inizio quindi molto polemico che destò anche un grande scandalo in patria, a seguito del fatto che dopo l’uscita in sala ed esser stato trasmesso una volta su Antenne 2, i successivi passaggi in TV vennero bloccati per ordine del primo ministro Raymond Barre.
Poi nascono due tra le opere più celebri di Philibert, le sole in effetti a essere adeguatamente conosciute anche in Italia: Nel paese dei sordi (Le pays des sourds, 1992) dove si raccontava quando i sordi venivano rinchiusi in manicomio come malati di mente o venivano loro legate le mani dietro la schiena per impedire di esprimersi con i segni; e ancora Essere e avere (Être et avoir, 2002), il suo documentario sino ad oggi più noto e che riuscirà nelle nostre sale dal prossimo 12 giugno. Si tratta di un affascinate lavoro di lunga osservazione dove Philibert ha seguito per circa sei mesi le vicende di una scuola e dell’ambiente rurale nel Massiccio centrale francese, a Saint-Étienne-sur-Usson con protagonisti 13 bambini di età diversa, dai 4 ai 13 anni, riuniti intorno alla figura di un insegnante in procinto di andare in pensione.
Animato sempre da un grande impegno morale, politico e didattico, l’approccio del regista francese nasce e si basa sull’avvicinamento progressivo al soggetto che vuole ritrarre. Che si tratti di un individuo, come l’orango in Nénette (2010), o di un gruppo di persone, come in La maison de la radio (2013), la sua costruzione narrativa non varia né viene meno la straordinaria pazienza filmica con cui osserva come uno scienziato al suo microscopio quanto si muove all’interno di una comunità.
Ma ora passiamo al sodo, parlando finalmente del suo ultimo Sur l’Adamant, vincitore dell’Orso d’oro allo scorso Festival di Berlino e adesso presentato in apertura del Biografilm Festival (Bologna 9-19 giugno), che sembra essere il condensato delle sue precedenti opere più importanti. Intanto chiariamo che “l’Adamant” del titolo è un centro diurno di accoglienza unico nel suo genere, il nome di un battello sulla Senna (vedi foto sopra), nel cuore di Parigi, che ospita pazienti adulti affetti da disturbi mentali, offrendo un tipo di assistenza particolare che fornisce loro un radicamento nella vita di tutti i giorni. Così li si aiuta a recuperare o per lo meno a tenere alto il loro morale con dei workshop dove esprimere e sviluppare le proprie tendenze e capacità artistiche. Seguiamo, allora, nel tempo – probabilmente nei due anni caldi della pandemia – in particolare 4-5 alcuni pazienti che dipingono, fanno musica, gestiscono un cineclub, danzano in gruppo. Molto meno interesse, invece, viene prestato all’équipe dei medici e di infermieri che gestisce “l’Adamant”; qui dunque si recano i malati (ma alcuni lo sembrano assai poco) a svolgere le loro attività sociali e di comunità, per esempio andare a comprare i cibi e cucinare insieme.
Sur l’Adamant, come si accennava, sembra costruire una summa del lavoro del cineasta francese, del suo metodo di paziente osservazione e del suo impegno politico-morale. L’attenzione posta a seguire alcuni personaggi parte dall’intimità con cui il regista “pedina” alla Zavattini le figure scelte, e di cui evidentemente ha conquistato la fiducia e la disponibilità ad aprirsi all’occhio della macchina da presa. Ne nasce un film a tratti appassionante, a tratti meno, che ma i suoi personaggi e che potrebbe durare ancora parecchie ore, come nel caso di opere come queste basate sulla metodologia della lunga osservazione.
Il sale politico del film si esplicita nel cartello finale dove si dice che a causa della ristrutturazione della sanità francese il centro è a rischio di essere chiuso e che l’opera di Philibert costituisce una implicita protesta contro questa minaccia che per ora sembra restata tale. Per la cronaca non è stato questo il solo film francese alla Berlinale 2023 che aveva denunziato la condizione difficile delle strutture ospedaliere transalpine, ad esempio Sages-femmes di Léa Fehner e infine il fluviale (168 minuti) Notre Corps di un’altra grande documentarista francese, Claire Simon, che esplora i meandri di una clinica ginecologica di Parigi. E comunque, a prescindere da tutto, in conclusione Sur l’Adamant resta un bel film più che consigliabile.
Di prossima distribuzione in autunno con I Wonder Pictures.
Sur l’Adamant – Documentario; Regia, sceneggiatura, fotografia: Nicolas Philibert; montaggio: Janusz Baranek, Nicolas Philibert; produzione: Céline Loiseau, Gilles Sacuto, Miléna Poylo per TS Productions; origine: Francia, 2023; durata: 109 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.