Copenhagen cowboy (Stagione 1)

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La loggia nera (e blu, rossa e viola)

Brutale, infinito, opprimente. No, non la nuova creazione di Nicolas Winding Refn, ma il tempo che intercorre tra un suo lavoro e un altro. Perché oggi, la Settima Arte non può disallinearsi dal genio visionario – stavolta sì, impossibile rinunciare a questa locuzione ormai iper-abusata da chiunque nei confronti di chiunque: il cinema di Refn è importante tanto quanto quello di David Lynch, di Steven Spielberg, di Tsai Ming-Liang… Dei più grandi, in poche parole. Perché grande è la portata scenica, concettuale e sensoriale del suo modo di realizzare azione ed emozione in movimento. E questo breve incipit non deve essere inteso come una stucchevole apologia, ma come un dato di fatto.

Dopo il nichilista Too old to die young, il regista danese torna nella sua Copenhagen, torna a occuparsi di malavita, di demoni e di fughe dalla (propria) realtà. Lo fa con una prima stagione (si spera!) divisa in soli sei episodi, concepita come un noir dagli espliciti spunti sovrannaturali, quasi un cinecomic che fugge da ogni schema omologato, che cannibalizza tonalità dark e decenni di poliziesco urbano, per raccontare l’odissea-catabasi di una protagonista quasi vuota, un “nessuno” in cerca di sé, di una casa e, soprattutto, di un senso per restare viva. E tutto si inabissa in un universo di toni rossi, blu e violacei, tra i quali spicca il nero dell’anima di uomini mostruosi, bestiali, addirittura caricaturali, perché estranei e avversari gli uni con gli altri. Il regista di Copenhagen  filma la sua città come fosse favolosa e fiabesca, tra boschi incantati e quartieri ameni, interni asettici e deturpati dal lusso, popolati da individui che grugniscono come maiali, potenti uomini d’affari che vivono incuranti dello scorrere del tempo, arrendevoli al torpore del sonno e al piacere e da corpi senz’anima, privati di un’identità, ridotti a carne da macello. È la realtà che non esiste senza l’immaginazione; è l’immaginazione che svela la brutale realtà dell’esistenza.

Copenhagen cowboy è la summa del talento artigianale e lisergico di Nicolas Winding Refn, un magma di suoni e visioni che più di ogni altro richiama Twin Peaks. Il regista di Drive e Solo Dio perdona danza a passo lento tra i corridoi di un labirinto oscuro, quello della mente, affrontando paure e sensazioni di disgusto, domando una marea di criticità sensoriali che sembrano mandare in cortocircuito la logica del racconto, quando al contrario elevano il narrato verso un livello di sublimazione percettiva: ci riesce grazie all’uso metodico e quasi ellittico di panoramiche a 360 gradi, in cui l’azione si evolve dentro e fuori campo; al perdurare di campi totali immersivi, magnetici e pulsanti – corroborati da una colonna sonora in perfetto bilanciamento tra dream-pop, synth-pop e dark-wave; e a un montaggio che rompe gli schemi seriali, richiamandone però la necessità di “conservare” quanto mostrato, per poter progredire (non necessariamente in linea retta) una narrazione mai inutilmente enfatica – si pensi alle numerose dissolvenze.

Il cinema di Refn è un mutaforma in grado di sprigionare una potenza immaginifica annichilente, impressa in ritmi non lenti o dilatati, ma essenziali per piantare e coltivare nel tempo ansia e regressione da essa, senza mai mettere da parte l’azione, intesa come forza cinetica che muove corpi e sguardo. Copenhagen cowboy è Refn nella sua essenza primigenia; è l’apoteosi pratica e teorica di un genio assoluto della Settima Arte.

Disponibile su Netflix dal 5 gennaio


Copenhagen cowboy –  genere: noir, drammatico; showrunner: Nicolas Winding Refn;  stagioni: 1 (in attesa di rinnovo); episodi: 6; interpreti principali: Angela Bundalovic, Fleur Frilund, Lola Corfixen, Zlatko Burić, Andreas Lykke Jørgensen, Jason Hendil-Forssell, Li Ii Zhang, Dragana Milutinović, Mikael Bertelsen, Mads Brügger, Ramadan Huseini, Per Thiim Thim; produzione: byNWR;  origine: Danimarca, 2023; durata: 60′ minuti; episodio cult: 1×01

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