Alla fine Pirandello è cosa celebrale. Ma quotidiana, al contempo. Le due caratteristiche non si possono scindere, sono genialmente legate, e fissare la poetica pirandelliana porterebbe inevitabilmente al caos, alla dispersione dell’energia presente. Fuor di metafora, si vuole dire che all’autore siciliano appartiene un nocciolo di contenuti e soprattutto forma che non devono essere disconosciuti, pena il tradimento dell’eredità pirandelliana o peggio la venuta meno dello spettacolo adattato. Uno, nessuno e centomila per la regia di Antonello Capodici dimentica che la cerebralità dell’autore siciliano nasce dal quotidiano osservato da un punto di vista terzo e nel portare sul palcoscenico l’opera pecca in più cose, tempi e scenografia e personaggi, ma soprattutto nella direzione, costringendo lo spettatore in più occasioni a chiedersi dove lo si stia portando. A quel punto il problema non è più se il naso sia storto o dritto bensì, gogolaniamente, se il naso ci sia ancora, e lo spettacolo teatrale con esso.
Vitangelo Moscarda si accorge, o meglio gli viene fatto notare, che il suo naso pende verso destra. È un’epifania contraria, l’identità va a rotoli. Persona ordinaria, proprietario di banca, buona rendita, improvvisamente si accorge che il Moscarda che credeva di essere non è lo stesso che gli altri vedono. Per la moglie Dida lui è Gengè, ma a Vitangelo i gusti di Gengè mica piacciono. Cornificato da se stesso si ritrova. Per il paese intero, è un usuraio. Lui, che credeva essere un benefattore. Scopertosi non più uno ma tanti, e con la paura e comunque l’attrazione di essere nessuno, Vitangelo si adopera per risolvere il problema: lasciare la moglie, liquidare la banca contro il volere dei soci Firbo e Quantorzo, offrire una nuova immagine di sé aiutando uno scultore fallito. Un processo di distruzione che la società non capisce e che un colpo di rivoltella spingerà oltre l’ostacolo, precisamente dentro un ospizio di mendicità, laddove Moscarda non è più uno, non è però nessuno, ma rinasce sempre nuovo, centomila volte e oltre.
Necessaria è una premessa: Uno, nessuno e centomila è un romanzo difficile. Difficile perché Pirandello può sembrare immediato ma la costruzione dell’immediato facile non è, difficile perché è l’ultimo (di) Pirandello – e quindi summa ed eredità al contempo -, difficile perché nasce come romanzo e non come pièce teatrale, e questa è la solita last but not least. Per l’adattamento, Antonello Capodici fa una scelta forte e opta per una scenografia che subito s’impone allo spettatore, un muro bianco che taglia orizzontalmente il palcoscenico. Si crea così uno spazio frontale – Vitangelo ormai in manicomio – e uno spazio retrostante – Moscarda immerso negli accadimenti che al manicomio l’hanno portato. Tanto radicale il primo spazio, tanto colorato il secondo (all’occasione banca, camera della moglie, inconscio del protagonista, stanza dell’amante etc etc), si stabilisce una fissità nell’uno e l’altro spazio, nonché un’opposizione degli stessi, che non aiuta il leggero linguaggio originario dell’autore, la plasticità dell’opera e alla lunga appesantisce lo spettacolo, e gli stessi personaggi. Personaggi che però scordano in parte la loro natura.
La cerebralità funambolica di Pirandello nasce infatti da una quotidianità analizzata in laboratorio. Dal fare un passo indietro rispetto alla vita e osservarla di lato. Solo così, di ‘profilo’, è possibile notare che il naso sta storto e farne un dramma identitario da domino di specchi. Fedeli a quell’idea che ciò che è tragico è pure comico, e viceversa, i personaggi pirandelliano acquisiscono una doppia o tripla dimensione fertile, il problema giunge nel momento in cui si dimentica il doppio dei personaggi e si cade nella macchietta, e le macchiette affaticano la scena. Il protagonista, un energico Pattavina, finisce per rimbalzare tra personaggi che vivono il solo tempo della battuta, e la sottile comicità dell’autore viene a smarrirsi in altri tipi di gag che pure funzionano ma non sono aderenti a Pirandello, e perdono in coerenza e brillantezza.
Uno, nessuno e centomila rimane una sfida teatrale e il tentativo di Capodici è solo in parte riuscito. Smarrita l’acutezza e la vitalità pirandelliana, e seppur con un buon cast nei molteplici ruoli proposti, lo spettacolo soffre di una meccanicità che vizia a tal punto lo spettacolo da far perdere a volte la via e l’interesse dello spettatore. La scenografia adottata rimane un azzardo, e nonostante possa essere una scelta coraggiosa, meno coraggiosa è la decisione di non dare una direzione decisa, nonché chiara, allo spettacolo nel passaggio da opera letteraria a lavoro teatrale. O se una decisione è stata presa, capire dove ci voglia portare. Insomma, per usare le parole di Pirandello, non può essere sufficiente una maniglia per definire Giulio Cesare, ma quando le maniglie si moltiplicano, il discorso si fa più complesso.
Fino al 15 gennaio al Teatro Quirino, Roma.
Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello – regia: Antonello Capodici; musiche originali: Mario Incudine; scene: Salvo Manciagli; produzione: ABC Produzioni e ATA Carlentini; interpreti: Pippo Pattavina, Marianella Bargilli, Rosario Minardi, Mario Opinato, Gianpaolo Romania.