Fabian – Going to the Dogs di Dominik Graf

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Al più tardi a partire dal successo della serie Babylon Berlin, il periodo della repubblica di Weimar, i ruggenti Anni Venti, è tornato ad essere quello che è sempre stato ovvero un periodo capace, come pochi altri, di produrre nella cultura europea del Novecento un’autentica mitologia, neanche la Parigi del ’68 e la Roma della “Dolce Vita” hanno saputo dar vita a una costellazione così compatta di stili, miti, figure tipologiche come la Berlino degli anni ’20. Proviamo ad elencarne alcune pescando a caso: la ridefinizione dei ruoli di genere e più in generale una profonda ambiguità sessuale, la cultura del cabaret, del divertimento, dell’eccesso (alcool, droga) la centralità dei media (cinema, teatro, radio, manifesti pubblicitari, i giornali, il collage, la musica jazz, spesso con una produttiva e innovativa interpolazione dei vari media), lo sport, nel quadro di una più generale attenzione al corpo, per la prima volta visto come movimento di massa che rientra a tutti gli effetti fra gli svaghi con cui una nuova generazione di impiegati e di impiegate trascorre il proprio libero, quegli impiegati e soprattutto impiegate, studiati in tempo reale dai sociologi del tempo (Siegfried Kracauer avanti a tutti) che raggiungono una nuova consapevolezza identitaria, la cosiddetta “neue Frau”, e poi ovviamente la moda, il design d’interni (chi non ricorda gli interni dei film di Fritz Lang, o di Georg Wilhelm Pabst), vabbè potremo andare avanti all’infinito…

Nella letteratura tedesca della seconda metà degli anni ’20 e dei primi anni ’30 di testi che documentano questo periodo così effervescente ma al tempo stesso drammatico perché segnato da profondi conflitti politici e sociali, anche perché – c’è poco da fare – questi, oggi lo sappiamo e allora s’intuiva, sono gli ultimi anni rutilanti che precedono uno dei più tremendi periodi della storia dell’umanità,  c’è l’imbarazzo della scelta: i romanzi di Vicky Baum e di Irmgard Keun, il più celebre e complesso di tutti ovvero Berlin Alexanderplatz di Döblin, i primi romanzi di Hans Fallada e, fra i  più riusciti Fabian di Erich Kästner, un autore diseguale e controverso (non si può dire che durante il Nazismo si sia distinto per una posizione nettissima, anzi, ma sarebbe un discorso lungo…).

La letteratura di allora intratteneva una produttiva relazione con il cinema, cercando di adottare stilemi all’epoca ancora nuovi, spesso quei romanzi venivano nell’arco di breve trasposti per il cinema, anche qui basti pensare al film di Phil Jutzi che traspone in tempo reale Berlin Alexanderplatz, cinquant’anni prima che di quel romanzo decida di occuparsi in modo straordinario il grandissimo RWF dedicandogli una delle serie televisive più importanti della storia del cinema mondiale.

L’adozione di stilemi cinematografici, il rapporto col cinema vale anche per Erich Kästner, basterà ricordare che, con la sceneggiatura di niente meno che Billy, all’epoca Billie Wilder, nei primissimi anni ’30 uscirà il film tratto dal suo più importante romanzi per ragazzi ossia Emil und die Detektive.

Fabian, il suo più celebre romanzo per adulti? Pur dotato di uno stile che non è difficile definire cinematografico (qua e là sembra un trattamento o una sceneggiatura, il testo suddiviso in capitoli brevi che sembrano sequenze), Fabian venne trasposto per il cinema molto tardi e si capisce anche perché: durante il Nazismo era impensabile, negli anni 50 il cinema della BRD era tutto o quasi allineato sul genere del cosiddetto Heimatfilm. Solo nel glorioso periodo del Nuovo Cinema Tedesco Fabian tornò attuale, ma ad occuparsene non fu Fassbinder (o Kluge o Wenders), bensì un autore minore di nome Wolf Gremm (1942-2015) che diede vita a un lavoro decisamente modesto e presto sparito di circolazione. La vera ragione, però, che ha provocato il ritardo nella trasposizione cinematografica di Fabian è da rintracciarsi nella decisione dello scrittore di non concedere i diritti mentre era ancora in vita. Kästner muore a 75 anni nel 1974.

Confidando nella clemenza dei lettori e sperando che ci abbiano seguito fin qua, veniamo adesso a parlare del film di Dominik Graf presentato (si fa per dire…, l’hanno visto di straforo solo i critici tedeschi, agli accreditati stranieri il film non è stato mostrato) alla Berlinale del 2021 e adesso in uscita anche in Italia. Graf – è accaduto di parlarne  in queste pagine – è forse il più importante autore televisivo tedesco, capace di portare anche in film chiaramente di genere (soprattutto thriller) la complessità di opere d’autore previste per il cinema. Graf è stato anche il principale mallevadore e collaboratore di quella generazione di (ex) giovani cineasti tedeschi uniti sotto l’etichetta “Berliner Schule” (PetzoldHochhäuslerSchanelec etc.).

Abbiamo visto (stavolta non è un pluralis majestatis, ma è un plurale vero: il Direttore ed io) Fabian al cinema in una delle più belle sale berlinesi, lo storico Delphi, e abbiamo avuto prima ancora che il film iniziasse la prima vera delusione: il meraviglioso schermo del Delphi, a luci spente, si è contratto, grazie al sontuoso tendaggio che ne ha delimitato i confini, in un – diciamolo pure – piuttosto triste 4:3 televisivo (colpa nostra, non ci eravamo informati, anche se talvolta accade che al cinema il formato televisivo venga in qualche misura dilatato per adeguarsi alle consuetudini della grande sala). La prima sequenza del film sembra programmatica: un lungo piano sequenza che entra nella fermata della metropolitana di Heidelberger Platz, evidentemente ambientata nell’oggi (scale mobili, passeggeri in abiti contemporanei, le vetture della metropolitana sono quelle gialle di oggi), attraversa tutti i binari per uscire dalla parte opposta, e già sulle scalette che conducono a quell’uscita, vediamo delle croci uncinate, manifesti di propaganda del già attivissimo (siamo agli inizi degli anni ’30) NSDAP. E qui ci imbattiamo in Jakob Fabian, perché Fabian non è il nome ma il cognome, interpretato dal bravo ma non particolarmente vario Tom Schilling, il protagonista di Oh, Boy – Un caffè a Berlino e dell’ultimo film di Florian Henckel von DonnersmarckOpera senza autore (https://www.closeup-archivio.it/werk-ohne-autor). Come già in Oh Boy, Schilling interpreta un personaggio ingenuo e spaesato che, come già nel primo film citato, si aggira per la grande città come se vi fosse capitato per caso. Lo spettatore si chiede il senso di questa prima scena: ci troviamo oggi in una fase non diversa, ovvero sull’orlo del baratro, tutto è rimasto invariato? Diciamo che il punto di vista di Graf non risulta chiaro anche perché queste attualizzazioni, da qui in avanti, non saranno più tanto frequenti, perché il film si atterrà in modo abbastanza rigoroso al periodo nel quale la vicenda di Fabian è ambientata. Qua e là vi saranno alcune poche infrazioni, la più vistosa delle quali una breve scena in cui sull’asfalto di Berlino si notano alcune pietre d’inciampo, i quadratini in ottone incastrati nel selciato, a ricordare le case dove avevano abitato cittadini di origine ebraica poi deportati e alla fine, prolessi un po’ scontata, il rogo dei libri del maggio del 1933.

Il punto è: sembra che Graf abbia deciso di concentrare nella prima parte del film tutti gli elementi di straniamento più vistosi, dispiegando un’intera serie di artifici (post)-avanguardistici: split screen, immagini documentarie in bianco e nero, riprese sgranate forse col cellulare con il preciso intento di disattendere l’orizzonte d’attesa dello spettatore che si aspetta l’ennesimo film sugli anni ’20-’30, con tutte le convenzioni elencate all’inizio di questo testo. Ciò rende la prima parte del film piuttosto faticosa, assai poco narrativa oltreché clamorosamente rischiosa, se pensiamo al pubblico televisivo a cui questo film in ultima analisi è destinato che, a nostro avviso, dopo non molti minuti cambierà canale. Dopo una quarantina di minuti il film si trasforma radicalmente, diventando molto più tradizionale e concentrandosi ben più di quanto non avesse fatto Kästner (sia nella prima versione, molto più radicale, pubblicata solamente di recente, sia nella seconda quella data alle stampe e poi ripubblicata nel dopoguerra; dalla prima versione proviene il sottotitolo scelto da Graf ovvero “der Gang vor die Hunde” equivalente all’italiano “l’andata a puttana”) sulla non particolarmente felice vicenda sentimentale fra il protagonista e la protagonista femminile Cornelia Battenberg, interpretata in modo non esattamente memorabile da Saskia Rosendahl che sogna di diventare, riuscendoci, un’attrice di successo nel cinema della UFA, non senza ricorrere a compromessi non proprio esaltanti con la produzione. Alla vicenda principale viene inoltre ad aggiungersi tutta la parte dedicata alla tragica fine dell’amico Stephan Labude, interpretato dall’eccellente Albrecht Schuch, visto e apprezzato in un ruolo non dissimile nella recente e assai poco soddisfacente trasposizione di Berlin Alexanderplatz di Burhan Qurbani (cfr. https://www.closeup-archivio.it/berlin-alexanderplatz).

Il sottotitolo della seconda e poi diffusa versione del libro è “storia di un moralista” e di questa oscillazione fra il tentativo di mantenere un rigore morale e il pressoché inevitabile compromesso con il mondo corrotto e violento di Berlino negli ultimi anni prima della catastrofe racconta il libro, racconta il film, che – dalla seconda parte in avanti – malgrado la professione di originalità dell’inizio finisce inevitabilmente per cadere in tutta quella serie di cliché di cui all’inizio. Insomma si tratta di un film profondamente irrisolto e con i suoi 170 minuti inutilmente lungo.

In sala dal 18 agosto


Cast & Credits

Fabian – Going to the Dogs (Fabian oder der Gang vor die Hunde)Regia: Dominik Graf; sceneggiatura: Dominik Graf; fotografia: Hanno Lentz; montaggio: Claudia Wolscht; interpreti: Tom Schilling (Jakob Fabian), Albrecht Schuch (Stephan Labude), Saskia Rosendahl (Cornelia Battenberg); produzione: Lupa Film, Amilux Film, Studio Babelsberg, arte, ZDF; origine: Germania 2021; durata: 170’; distribuzione: PFA Films e RS Productions.

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