Festa del cinema di Roma: Bound in Heaven di Huo Xin (Vincitore come Miglior Film del Concorso Progressive Cinema)

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C’è tanta carne al fuoco, nonostante l’evocativo ed elusivo titolo, in  Bound in Heaven, appena premiato come Miglior film dalla giuria della Festa del cinema di Roma, esordio della regista cinese Huo Xin:  prima di tutto il melodramma nell’incontro sessuale e sentimentale tra una donna infelicemente sposata della buona società cinese e un ragazzo proveniente da un contesto familiare rurale che nella grande città vive di bagarinaggio e di espedienti. Ma non è soltanto questa specularità ad attrarre Xia You e Xu Zitai, c’è qualcosa di più profondo e radicale che fa scattare il loro rincorrersi, incrociarsi e afferrarsi nel corso del tempo; entrambi fanno quotidianamente i conti con una rassegnazione che presa singolarmente rasenta l’autodistruttività, la sanguinante e dolorante  ferita di un abuso reiterato e di un progressivo logoramento: un marito violento dietro la patinata facciata di ricchezza e privilegio per lei, una malattia, che ne sta prosciugando velocemente le risorse vitali, per lui.

Macigni ben radicati in un tessuto sociale nel quale la violenza domestica è rifiutata, occultata e tollerata dalla stesse vittime (“Non rovinarmi il trucco, ci sono ancora gli ospiti”, dice Xia You al marito che la sta per picchiare in bagno) mentre il sistema sanitario e l’accesso a determinate cure  hanno ancora una matrice classista dal punto di vista economico. La scelta della regista evita comunque in buona parte un approccio realistico a delle questioni intrecciate da valenza politica e culturale  (l’indigenza di una parte della popolazione è collegata alla repressa emancipazione femminile in una stratificazione/ schiacciamento su un modello neoliberale e  maschilista), e cerca in una dimensione esistenziale il riscatto dei suoi due emarginati. Cacciati fuori da qualsiasi aspettativa, progettualità e struttura ordinata, in quanto anche la famiglia di Xiu Zitai ne respinge con ostilità il precario e instabile nomadismo,  condividono il giorno per giorno di una corsa tutta in velocità e in accelerazione rispetto alla morte percepita come condizione sempre più vicina o minaccia da cui fuggire perennemente.

A questo livello già piuttosto denso, non vengono risparmiate le conseguenze a cui portano l’esasperazione da una parte e la consapevolezza di non aver più nulla da perdere dall’altra. Aleggia già la presenza ombra di un’altrove immaginato in quanto non luogo di transizione dove sancire temporaneamente  il loro legame focalizzato sul presente, senza passato e senza futuro. Il paradiso è meno che mai il riferimento ad una tensione trascendentale, e si fa portatore, nel suo significato di evanescenza e immaterialità, di una zona liminale, di confine;  lo scenario mélo di una Shanghai ritagliata, frammentata, ripresa nella sua estensione marginale e non nella centralità di una posizione dominante, dalla attenta fotografia riflettente bagliori, riflessi e superfici del Dop Songri Piao (per altro Premio della giuria per la migliore fotografia al Festival di San Sebastian). C’è poi un ulteriore spostamento verso la campagna da cui è scappato Xu Zitai, che ha la duplice apparenza dell’idillio e della miseria relazionale e umana, quest’ultima nel malcelato rifiuto dei genitori del ragazzo che smantellano perfino un basico senso di appartenenza e di riconoscimento.

Dopo aver illustrato il contesto dal quale staglia in primissimo piano le due figure principali, con un piglio che punta all’assolutismo del poetico e del romantico ma talvolta risulta  troppo marcato e didascalico, Huo costruisce una parte centrale quasi noir, con le contraddizioni che esplodono in maniera diretta e irreversibile contro il sistema (dinamiche sadomasochiste, omicidio, furto), prima di rispostare l’orizzonte degli eventi alla dimessa accettazione, in seguito alla furia estemporanea e reattiva per le ingiustizie subite, di un alba insieme che Xia You e Xu Zitai non vedranno mai. La migliore soluzione di regia  è affidata proprio  a ciò che resta fuori campo e che è strettamente e imprescindibilmente collegato all’occasione della conoscenza tra di due protagonisti, su un piano narrativo  in modo esplicito e  simbolico in maniera indiretta. Xia You cerca infatti Xu Zitai per farsi vendere  il biglietto di un concerto della sua pop star preferita, l’idolo dell’infanzia  e della giovinezza, al quale il coercitivo consorte l’aveva costretta a rinunciare; esauriti anche i tickets abusivi, l’uomo la fa entrare dall’uscita secondaria del teatro e le fa guardare la performance della sua beniamina, peraltro tenendola in braccio, attraverso il vetro lungo e stretto nell’intercapedine di un muro. La percezione visiva e sonora è tanto lontana da non far capire cosa, quanto e come Xia Yu stia effettivamente ascoltando e vedendo, eppure il suo sguardo è attaccato, affabulato, conquistato.

Il taglio schiacciato in orizzontale di un immaginario nutrito di memoria e di vissuto, un peso specifico che offre corposità e appiglio a una storia destinata a smaterializzarsi, come la fisicità e la capigliatura di Xu Zitai, ridotte a logoramento e rasatura. Ma a prescindere da alcuni momenti ispirati e efficaci su un  piano di messa in scena, in Bound in Heaven è preponderante una ricerca forzata ed enfatica dell’emozione, con quel  gridare , da parte soprattuto di Xia Yu, in alto, verso un cielo nient’affatto paradisiaco o salvifico, il proprio diritto /desiderio alla libertà e alla felicità, anche se relativizzate e limitate in uno spazio-tempo. Un procedere a blocchi, con in sottofondo il ticchettio di un meccanismo fon troppo elaborato in fase di sceneggiatura, che contrappunta la fluidità e la spontaneità della rappresentazione chiusa perfino nella circolarità di un ritorno tra inizio e fine, e non aperta alle digressioni e alle sospensioni del disagio che vorrebbe cogliere, far sentire, se non proprio denunciare. Viene in mente, restando nel fecondo e folto territorio del cinema orientale, quel capolavoro di Millenium Mambo (2001) diretto da Hou Hsiao-hsien che, sottraendo e prosciugando fino all’osso il dispositivo della narrazione, restituiva  in trasparente forma di esperienza sonora e visiva lo spaesamento di una gioventù in procinto di perdersi tra le macerie post analogiche della metropoli (Taipei, in quel caso) e il bug secolare dell’era digitale. Nel film di Huo Xin, comunque un’opera prima, il testo resta intellegibile prevalentemente nella sua linearità,  quando si sentirebbe la necessità di un maggiore scarto tra l’enunciazione dei fatti e il loro significare altro, la possibilità di suscitare un sentimento profondo, insondabile, perturbante.

Magari è già sufficiente l’aver adattato il romanzo di Li Xiuwen, con al centro dei personaggi così problematici e scomodi, e aver offerto a due interpreti incantevoli e pieni di grazia, pur nella soggiacente amarezza e in qualche impeto di brutalità, come Ni Ni e Zhou You l’arena per un disperato e terminale rendez vous  stemperato  nell’euforia visiva di una sequela di fuochi d’artificio.


Bound in Heaven (Kun bang shang tian tang) Regia: Huo Xin; sceneggiatura: Yu Pan dal romanzo omonimo di Li Xiuwen; fotografia: Songri Piao; montaggio: Matthieu Laclau, Yann-Shan Tsai, Zhao Zhang; musiche: Zhi Shiliu, Yang Bowen; interpreti: Ni Ni, You Zhou, Liao Fan; produzione: Such A Good Film Co., Shanghai Shigu Film Co. Ltd, Alibaba Pictures (Beijing) Co.; origine: Cina, 2024; durata: 105 minuti.

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