Avvolto per quasi tutta la sua lunga durata da una semioscurità che ne amplifica la dimensione imperscrutabile e tendente a un misticheggiante altrove, Perfumed with mint dell’egiziano Muhammed Hamdy è un film che quasi si svilisce nel raccontarlo a parole, nonostante la parola, espressa nella forma massima, almeno per la culture orientali, di preghiera, canto e poesia, sia uno degli elementi fondamentali che ne costituiscono la composizione sonora e visiva. Già l’ambientazione, fondamentalmente tutta in interni a parte qualche apertura data da una finestra o da una porta, non colloca temporalmente o geograficamente i luoghi. Dai dialoghi deduciamo che i fatti stanno avvenendo in una grande metropoli egiziana, presumibilmente Il Cairo (città di provenienza del regista), ripresa però dal dentro di anfratti, stanze, appartamenti dimessi, abbandonati quantomeno dalla presenza umana e viva secondo la concezione e la percezione comune; in realtà sono posti abitati da entità, spiriti, oppure da creature antropomorfe contaminate non con una più prossima animalità, almeno per quanto riguarda il genere, ma con il folto e ramificato paesaggio vegetale richiamo per contrappunto da un fuori campo in suggestione ed evocazione e, come traccia, sui volti e tra i capelli di alcune figure/personaggi.
I traghettatori di questa sorta di intimista Divina Commedia da Kammerspiel sono una coppia di laconici e piuttosto sentenziosi amici: la voce guida principale appartiene a Bahaa, che di professione dovrebbe essere un medico di base, anche se fin dalla prima sequenza lo troviamo in ricevimento di un’anziana donna che gli racconta le sofferenze di un figlio morto più di una volta e ritornato come spirito che non trova pace, al che l’uomo le risponde che dovrebbe fare lei degli esami e degli accertamenti per comprendere che la sofferenza è nel suo cuore e nella sua mente (in un dialogo che già fa sconfinare la funzione scientifica della medicina in un ambito psicanalitico di elaborazione di un fatto culturalmente, religiosamente e socialmente radicato come il rapporto con la morte). Bahaa viene poi turbato, sollecitato e spinto in un vagare peregrino per le case adibite a passaggi transitori per i vivi e i morti da Mahdy, una sua conoscenza di vecchia data che avvia, proprio in virtù di un passato condiviso, il processo della memoria e la manifestazione orale e visiva del ricordo. Mahdy porta già su di se i segni di questa mutazione tra i geni umani e quelli della pianta, in particolare proprio la menta menzionata nel titolo che con il proprio aroma traspirato stabilisce un contatto immanente con ciò che è avvenuto e che ormai è perduto o cristallizzato in colpa o in eterno vagare (per Bahaa si tratta di un amore, per Mahdy un ragazzo a cui ha sparato).
Non si tratta però solo di una storia di fantasmi, perché l’accesso ad uno stato ultraterreno appare essere consentito attraverso la pratica del fumare hashish, un’azione che entrambi i personaggi compiono per tutte le abitazioni in cui transitano e in compagnia degli altri soggetti che incontrato. Un rituale che ha l’efficacia e la pervasione di una formula magica e esoterica, spostando il contrappeso non su una fantasmatica e impalpabile essenza astrale o su una proiezione sganciata dalla fattualità della circostanza. La “fattanza” permanente , si lasci passare il gioco di parole, di questi individui in cerca di pace, è condizione necessaria per poter entrare in relazione con i fantasmi tutt’altro che evanescenti o fumosi di un hinterland urbano ( il decor spoglio e fatiscente presuppone marginalità e povertà), ma restituiti in una loro corposità tridimensionale ( come lo spettro del ragazzo con la schiena perforata dai fori di proiettile che continua a ripetere in loop la propria storia). È come se Hamdy abbia bisogno di agganciare la sua perlustrazione nella zona franca del post mortem alle radici delle piante attaccate alla carne in decomposizione di cadaveri resuscitati o di uomini in fughe messe in atto come (falsi) movimenti. Un’esigenza che cerca di realizzarsi particolarmente su un piano espressivo e formale, con la privilegiata scelta, ipnotica e stordente, del piano sequenza che riproduce, appunto, la sensazione di staticità, sospensione, di viaggio immobile; e il controcampo e controcanto di una simile condizione, a tratti estenuante nella reiterazione, va ricercato nella costruzione delle inquadrature, nell’uso della profondità di campo e nella conseguente gestione della luce e del colore.
L’ambiguità, fin dall’assunto della scena iniziale nella quale Bahaa ci viene mostrato come un dottore per quanto dall’approccio molto umanista, sta nel far intendere che potrebbe trattarsi di una lunga allucinazione collettiva indotta dall’aspirazione delle sostanze, e il dare uno spessore tridimensionale agli ambienti, agli oggetti e alle persone colpiti da una penombra che obbliga ad una concentrazione e a un’attenzione per vedere cos’è reale e cosa non lo è, permette di seguire la cosi fitta tessitura. Anche le litanie ripetute, che annunciano un nuovo diluvio universale per purificare le strade di una città empia di assassini, drogati, sfruttatori o anche solo egoisti (l’indolenza e il vittimismo di Bahaa, ad esempio), cattura l’ascolto nel momento in cui si entra in sintonia con le frequenze di un fraseggio e di un ritmo. Da questo punto di vista, il cineasta egiziano, pur alla sua opera prima, già ha l’audacia di raccontare il tempo attribuendogli una forma sonora e visiva. Il rischio del formalismo, del compiacimento monologante, del voler ammantare il disarmo morale e civico di una bellezza fosca con sprazzi di bruciante luminosità entra in campo e crea talvolta un sentimento respingente, irritante o di estraneità. Il progressivo scadere in un simbolismo marcato spinge in una direzione contradditoria rispetto a quel rigoglioso fiorire di realismo magico nella prima parte (non è propriamente corretto parlare di una divisione in parti per un’opera così nel mood di ospitare partenze e ritorni). L’inesauribile memoria cinefila rammenta poi quel cinema della relazione declinata e immersa nelle categorie del tempo, della parola e dell’immaginazione secondo personalissime poetiche, da Hiroshima, mon amour a Lo specchio fino a Lo zio Boonmee che si ricorda delle vite precedenti, mentre la personalità autoriale di Hamdy non possiede ancora un impronta tanto profonda , e rimane l’impressione di un’asetticità stilistica, di una freddezza intellettuale.
Ma sotto la vernice fin troppo curata, arriva la vibrazione e la quieta disperazione di un umanità prima e dopo confinata alla fine del mondo.
Perfumed with mint (Moattar binanaa ) – Regia, sceneggiatura e fotografia: Muhammed Hamdy; montaggio: Thomas Glaser; interpreti: Alaa El Din Hamada, Mahdy Abo Bahat, Abdo Zin El Din, Hatem Emam Moustafa; produzione: Farès Ldjimi (Supernova Films); origine: Egitto/ Francia/ Tunisia/ Qatar, 2024; durata: 113 minuti.