Festival di Venezia (28 agosto – 7 settembre 2024): Sugar Island di Johanné Gómez Terrero (Giornate degli Autori – Concorso). Perché sì e Perché no di Giammario Di Risio e Ivan Orlandi

PERCHÉ NO di Giammario Di Risio  ** stelle

La fuga fu la prima manifestazione di ribellione … la ricerca della libertà era vista come un crimine. A Boca de Nigua, sull’isola, il 30 ottobre 1796 ci fu la prima rivolta degli schiavi contro le ingiustizie perpetrate dai colonizzatori. La terra, la foresta, i campi divennero, in quel preciso istante, un nucleo da proteggere e una cultura da salvaguardare. Questo nucleo viene portato ai giorni nostri dagli occhi grandi di Makenya, una giovane donna che sembrerebbe essere preda della paura.

Repubblica Domenicana. La giovane Makenya resta inaspettatamente incinta mettendo in crisi tutta la sua famiglia. Sua mamma prova a deviare il suo destino di giovane-madre con una pozione mentre suo nonno, che da decenni lavora in una piantagione da zucchero, sta per essere “rimpiazzato” sul lavoro dai macchinari. Sullo sfondo di una terra pulsante, la giovane protagonista ricerca un suo registro identitario e si affida alle visioni di un serpente per comprendere le proprie emozione e superare le paure.

Il linguaggio del film, che si affida alle atmosfere e alle tematiche del cinema del marronage, della regista Johanné Gómez Terrero, punta molto sui primi piani e sui dettagli. La gravidanza di Makenya diventa metafora dell’emancipazione femminile, da un lato, in dialettica con la schiavitù dei suoi antenati dall’altro. Il legame con madre natura, vera co-protagonista della pellicola, fa emergere il rapporto della ragazza con elementi primordiali quali fuoco e acqua. Quest’ultimi puntellano sempre il quadro e legano la realtà della protagonista con le atmosfere portate in dote dal serpente, vero elemento simbolico che professa misticismo e animismo. Il montaggio non sempre collega nel migliore dei modi i vari piani di significazione e la vicenda di Makenya si perde tra le troppe istanze, denunce narrative.

Il film, in sostanza, potrebbe risultare un’opera di qualità sul versante concettuale ed estetico, visto che la regista utilizza cromatismi che ci fanno conoscere lietamente il mondo dei villaggi Batey con uno sguardo preciso e sincero. Tuttavia tale base propone un piano di sceneggiatura tra presente, la gravidanza di Makenya e l’industrializzazione, passato, la schiavitù e le radici coloniali, e registro intimo, il soprannaturale rappresentato dal serpente, che spesso appesantisce la visione non avendo una vera e propria fluidità in quadro in termini di ritmo narrativo.

PERCHÉ SÌ di Ivano Orlandi   ***(*) stelle

La bocca di una caverna. La camera si abbassa, delle sacerdotesse escono dall’antro ancestrale e si avviano verso il nostro mondo. Ora forniscono cibarie ai disgraziati lavoratori di canna da zucchero che vendono il loro corpo per un riparo e qualche soldo. Settimana santa, è la festa del gagà in questo paesino rurale haitiano, impazza la danza. La musica afro si tinteggia di elettronica urbana. Le vestali danzano anche per il pubblico occidentale, vendono il loro corpo per un minimo d’ebbrezza voyeuristica. La figlia di una di queste, l’adolescente Makenya, entra nella caverna. Non sa ancora, novella Maria, di essere incinta. Si rivolge direttamente allo spettatore e, ammiccando, lo invita in questa “isola di zucchero”. Ma quel che assisteremo non è l’ennesimo spettacolino esotico ma la cinematografica rinascita dello spirito di un popolo.

La regista dominicana  Johanné Gómez Terrero, fedele fin da subito alla radice debordiana del terzo cinema, si appropria di un’estetica da videoclip per introdurci a un labirinto di forme culturali arcaiche, per rianimare secoli d’invisibilità. Nella caverna, tra le rovine di un antico zuccherificio, le sacerdotesse si radunano per i loro rituali liturgici: rievocare, come fosse la riunione di un partito rivoluzionario, le gesta sovversive dei dannati della terra. Attraverso la regia, il loro spirito guerriero si riverbera nel mondo reale: nelle piantagioni lo slow motion trasforma il taglio delle piante in una danza, mentre la musica rende il canto dei disperati un coro.

Riscopriamo così la teoria marxiana sul lavoro: la realtà materiale, il contatto con la terra, il sogno di una liberazione attraverso il lavoro, ma anche lo sfruttamento schiavistico, l’alienazione, la modernizzazione. Il coro dei dannati è reciso dall’avvento di infernali mietitrici che sembrano aver vita propria, efficace concretizzazione del sogno capitalistico di completa automazione. Espropriati della terra, sfrattati dalle loro case, questi anonimi diseredati senza documenti né diritti ritrovano la loro connessione spirituale solo nella piantagione, dove infine avrà luogo il divino concepimento.

Nel grembo di Makenya non cresce un salvatore, ma un nuovo immaginario. Costretta per sopravvivere a passare da romantici baci a lume di candela alla vendita di zucchero filato alle giostre, la sua presa di coscienza della violenza del lavoro è parallela a quella dello spettatore messo di fronte per la prima volta ai duraturi tormenti di un intero popolo. Piombata tra la terra lavica in un incubo rosselliniano, Makenya sembra ritrovare sé stessa in Ingrid Bergman, in una tradizione di Madonne gettate nell’inferno del mondo.

Molto più benevola di Rossellini, Gómez Terrero guida la sua vergine in direzione del simbolo: la statuetta di Santa Marta avvolta da un serpente. Questo serpente emerge dai campi, scrutando in profondità l’anima di Makenya con occhi d’infrarosso. L’eroticità dei corpi danzanti si proietta nella cura materna per i simboli aprendo il varco al culto di una nuova visione: una visione serpentina che, mutando continuamente pelle, abbraccia i corpi in un fervido intreccio di eros, spirito e materia, che risponde al richiamo del misterico per partorire un nuovo cinema, un terzo cinema.


Sugar Island – Regia e sceneggiatura: Johanné Gómez Terrero; fotografia: Alván Prado; montaggio: Raúl Barreras; musica: Jonay Armas, Gagá de la 30; suono: Homer Mora; scenografia: Oliver Rivas; costumi: Palma Ruiz; interpreti: Yelidá Díaz, Ruth Emeterio, Juan María Almonte, Génesis Piñeyro, Diógenes Medina; produzione: Fernando Santos Díaz per Guasábara Cine in co-produzione con David Baute per Tinglado Film; origine: Repubblica Domenicana/Spagna, 2024; durata: 91 minuti.

 

 

 

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