A partire dal 4 settembre, arriva nelle sale italiane Taxi Monamour il nuovo film di Ciro De Caro, presentato in Concorso alle Giornate Degli Autori al Festival di Venezia. Per l’occasione, ne abbiamo approfondito alcuni aspetti col regista.
Domanda: dopo la proiezione di Taxi Monamour al Festival di Venezia come commenti a caldo questa esperienza?
Ciro De Caro: un regista potrebbe trascorrere tutta la sua vita senza mai andare a una edizione delle “Giornate degli Autori”. Quindi, per me, è già di per se un grande onore ed una grande fortuna. Ho passato molte passate edizioni a vedere i film delle Giornate Degli Autori e quest’anno essere io lì, in sala, a presentare l’unico film italiano in Concorso è stata un’emozione enorme. Anche se sembra banale dirlo. È stata un’esperienza fondamentale stare alla Mostra del Cinema di Venezia. Ho sempre amato la selezione delle Giornate che è una sezione prestigiosa.
Taxi Monamour è la storia di due fragilità femminili. Quali sono state le difficoltà di tale sfida e cosa invece è cambiato in te dopo aver girato questo film?
Sì. Il mio film racconta due donne fragili, sole, che arrivano da molto lontano e si incontrano. La difficoltà è sempre quella di cercare uno sguardo sincero, non giudicante e non troppo didascalico, volevo far venire fuori la delicatezza della situazione: le cose che non si dicono, che non si vedono. Non mi andava di calcare troppo la mano, di farle dire troppo, di essere troppo razionale nel racconto. Quindi, la difficoltà maggiore è stata quella di pormi personalmente con delicatezza, curiosità e rispetto. Erano queste le cose che ho tenuto sempre ben a mente nel parlare di questo incontro casuale, che, come tutti gli incontri nella vita, avviene tramite una serie di coincidenze che si mettono in moto da quando nasciamo e per tutta la nostra esistenza. Quello che mi fa paura è il fatto che questi incontri possano non avvenire.
Quali credi che siano i punti di forza del film, alla luce delle critiche che hai ricevuto?
Non saprei elencare i punti di forza del mio film, ognuno può vederci qualcosa. Posso dire invece cosa piace a me: il fatto che è sincero, che fa vedere il mondo e l’Italia in cui viviamo senza raccontarli esplicitamente, bensì attraverso la semplicità esistenziale delle persone. I temi più grossi restano invisibili e di fondo.
Parliamo della fotografia, contraddistinta da innumerevoli tagli in asse. Com’è stato lavorare al fianco di Manuele Mandolesi? Quali sono gli aspetti su cui avete lavorato maggiormente?
Ho lavorato in stretto contatto con il direttore della fotografia, fin dalle scelte delle ottiche. Quello che mi interessava era mettere l’operatore nelle condizioni di essere un personaggio invisibile all’interno della scena, che si muovesse e danzasse con gli attori. Doveva essere presente e al tempo stesso discreto. Al risultato ci si arriva lavorando tutti insieme, con gli attori, col direttore della fotografia e in fase di montaggio.
A quale regista ti senti più affine? Quali sono, dunque, le tue fonti di ispirazione?
Non mi posso sentire affine a nessun regista, quelli che mi piacciono sono dei grandi maestri del cinema. Non posso nemmeno paragonarmi a loro. Posso affermare che mi piacciono tutti i registi della Nouvelle Vague: Truffaut, Godard, Rohmer. Sono stata innamorato di John Cassavetes. Attualmente mi piacciono i Fratelli Dardenne, Cristian Mungiu e Alfonso Cuarón.
Da oggi il film è nelle sale. Cosa ti auguri che arrivi al pubblico?
Mi aspetto che prima di tutto il pubblico vada a vederlo e che possa riportare con sé a casa qualcosa. Il film parla di due donne, di un’amicizia, di qualcosa che accade e non accade. Ma poi, non si dicono o accade nulla di particolare. Chi guarda Taxi Monamour dovrebbe comprendere che se si tiene ad una persona non si dovrebbe perdere il tempo a dirle “ti voglio bene” o “ti amo”. Si potrebbe non avere delle altre occasioni per pronunciare queste parole. Mi piacerebbe che il pubblico se ne andasse a casa con questo avvertimento.