Alle soglie del nuovo election day per la presidenza degli Stati Uniti d’America, il report che Michael Premo fa in Homegrown delle precedenti, discusse e conflittuali elezioni del 2020 ( avvenute nel caos del pieno della pandemia, con uno scontro asprissimo tra Donald Trump e Joe Biden e con la vittoria di quest’ultimo contestata fino al violento, sanguinoso e inaudito assalto a Capitol Hill) da una prospettiva cosi interna come l’elettorato di estrema destra, appare come una rappresentazione piuttosto inquietante di un radicalissimo calato in una dimensione quotidiana e dimessa: considerando peraltro che, dopo il ritiro di Biden, la candida democratica è diventata la sua vice Kamala Harris (una donna afroamericana, dunque bersaglio ancora più esposto di un certa sottocultura politica suprematista e patriarcale), Homegrown , che potrebbe tradursi con l’aggettivo “nostrano”, qualcosa che nasce e cresce all’interno di una certa area del territorio statunitense, diventa ancor di più una mappatura per orientarsi tra le varie zone d’interesse di un elettorato non riducibile al fenomeno folkloristico o di un costume a cui guardare in maniera esotica o grottesca.
Il tono con cui Premo segue, nell’arco di alcuni mesi fino al momento della proclamazione della vittoria di Biden e poi del suo insediamento alla Casa Bianca, alcuni esponenti dei Proud Boys, un movimento di patrioti e sciovinisti, laddove i due termini assumono nell’accezione che ne danno loro lo stesso significato, segue la strada di un realismo descrittivo, senza intervenire in prima persona come interlocutore o interrogante, e senza neanche spiegare più di tanto i contesti, le motivazioni, gli avvenimenti. Non c’è quasi mediazione o filtro, siamo gettati, in media res, nell’aspetto in particolare organizzativo ed esecutivo dei gruppi ma anche dei singoli in marcia per l’esaltazione di Trump, quantomai feticcio di un’ideologia; un modus vivendi che si evince dalla maniacalità e dall’ossessività di ogni forma di rituale, dalla preghiera ai canti, all’abbigliamento, al possesso di oggetti, bandiere, simboli fino ovviamente alle uniformi e alle armi di carattere militare, un tipo di impostazione sempre soggiacente e latente, anche in modo molto improvvisato, dentro questi microcosmi sotterranei e suburbani; il suggello di uomini, e solo uomini, stagliati dalla massa inneggiante slogan (in particolare i punti di vista appartengono a tre personaggi: un padre proletario del New Jersey, un veterano dell’Air Foce One, un attivista del Texas con discendenza messicana) ed espressione di sfumature anche differenti.
Uno dei segmenti più interessanti ed inediti è infatti proprio quella che riguarda l’esponente texano di origini meticce e il suo tentativo di dialogo e coinvolgimento con e di una delle leader del Black Live Matter, il movimento antirazzista che, assieme ad Antifa, che riunisce in se tutti i collettivi antifascisti e di estrema sinistra, è l’avversario maggiormente contestato dal suprematismo bianco tendente ad un aggressivo vittimismo (Chris, l’uomo-padre-cristiano del New Jersey, rivendica di non avere le stesse opportunità da un punto di vista lavorativo dei neri); un incontro che non può che concludersi dunque più che altro in un corto circuito, nel quale emerge non solo il fatto che il patriottismo sia un sentimento ad appannaggio prevalentemente, in un’ottica storia e culturale, di quelle strutture di potere che hanno perpetrato non solo il razzismo, ma ancor prima la schiavitù, ma anche quanto questo elemento venga in qualche modo rimosso o ridimensionato da una parte di elettorato afroamericano ed ispanico, che ha la necessità di riconoscersi in una nuova forma di legittimità, spacciata sotto il cartello della legalità, in modo da azzerare le contraddizioni e le discriminazioni.
Premo cerca dunque di creare delle tensioni all’interno del circuito chiuso di una destra ormai totalmente polarizzata e ingestibile nelle sue frange più marginali e apparentemente avulse da una partecipazione democratica e dialettica. E l’aspetto più inquietante che viene colto, e in parte restituito, sta proprio in quel parlarsi addosso di un mondo non tanto a parte come crediamo almeno noi dalla percezione distante ed esterna di europei, rimasti sgomenti davanti ai atti di Capitol Hill. Non sono soli alienati folli o orde di violenti che emergono dal sottobosco della provincia, ma costituiscono un tessuto sociale prossimo, vicino, confinante con il recinto di conquiste democratiche date per acquisite, per quanto attraversate da condizionamenti e coercizioni di matrice economica neoliberista; lo sfondamento del livello di guardia davanti alla White House, rappresentato da forze dell’ordine quasi più dispiaciute di non poter stare dall’altra parte, viene filmato da Premo a distanza estremamente ravvicinata e ne è la diretta e ineluttabile conseguenza, la fallace giornata di gloria di un mucchio di individualità sparpagliate e schegge impazzite, portare dall’inerziale forza centripeta di una massa e non di una collettività.
Il limite in questo modo di raccontare risiede però nell’appoggiarsi e confidare troppo sull’elementare, basico rilevamento fenomenologico, sganciato un po’ troppo da una lettura di senso, in grado da permettere una ricostruzione dinamica, complessa, stratificata al di là della superficie delle cose accadute prima e dopo il climax di Capitol Hill. La vicinanza di Premo è, evidentemente, diversa da quella messa in atto da Michael Moore, il suo più diretto ed esplicito riferimento nel voler affrontare di petto il cuore nero di un’ America sbandata e abbandonata a se stessa. Se Moore infatti, nel dittico Bowling for Columbine–Fahrenheit 9/11 si esponeva (come del resto in tutta la sua produzione) in prima persona, corpo e voce narrante, come dito nella piega purulenta di una società malata di paranoia, consumismo, manipolazione, abuso e sopruso, partendo dichiaratamente da un assunto e da una presa di posizione da dimostrare con ogni mezzo espressivo ( non esclusa la retorica e la provocazione), Premo vorrebbe far parlare da soli i protagonisti del suo film, proprio nei non detti, nelle omissioni, in un’incapacità di argomentare oltre un’indefinita e confusa rabbia le ragione di un indefinito e confuso agire. Resta la sensazione di una progressiva accumulazione di immagini, magari non compiutamente a fuoco in un discorso esteso, ma che lasciano la necessità di navigare a vista in quel marasma spaventoso e non distopico di un mondo veramente al contrario.
Homegrown – Regia e fotografia: Michael Premo; montaggio: Kristen Nutile ACE, Shilpa Kunnappillil; musica: Khari Mateen; produzione: Rachel Falcone, Michael Premo, Marshall Hanig per Storyline; origine: USA, 2024; durata: 109 minuti.