Festival di Venezia (28 agosto – 7 settembre 2024): Taxi Monamour di Ciro De Caro (Giornate degli Autori – “Premio del Pubblico Giornate degli Autori”)

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Come ognun sa, o dovrebbe sapere, le “Giornate degli autori” sono una rassegna parallela della Mostra di Venezia, nata nel 2004 per iniziativa dell’ANAC e API sulla falsariga della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, con lo scopo di “offrire percorsi alternativi, modalità diverse e parallele a quelle della selezione ufficiale”, per dirlo con le parole del compianto Citto Maselli, già suo vicepresidente. Quest’anno le Giornate ospitano in Concorso un solo film italiano: Taxi Monamour di Ciro De Caro (vedi qui la nostra intervista), subito in sala dal giorno quattro settembre che poi si è si aggiudicato il “Premio del Pubblico Giornate degli Autori”.
Per iniziare a inquadrare la pellicola mette conto riferire che si tratta di una produzione Kimerafilm, società di produzione audiovisiva nata a Roma nel 2009 principalmente per impulso di Simone Isola, che la presenta così: “L’obiettivo di Kimerafilm è quello di illuminare temi e talenti ai ‘margini’ della grande industria, affermando con orgoglio il ruolo delle piccole imprese nel panorama produttivo del cinema italiano”.
Ecco, grazie a Isola, siamo ora in grado di restringere ulteriormente il campo: Taxi Monamour è innanzitutto un piccolo film d‘autore “marginale”, che rivendica fieramente la propria dichiarata eccentricità, facendone una peculiare cifra stilistica. Narra, nei tipici stilemi di certo cinema minimalista “romano” – se ci si passa il termine, che è qui usato come connotazione più estetica che geografica – la storia del breve incontro tra due fragilità femminili: quella di una giovane donna romana (è però interpretata dalla co-sceneggiatrice Rosa Palasciano, nata in provincia di Brindisi) alle prese con le conseguenze di una malattia; e quella di una giovane donna ucraina, che vive in Italia malgrado la sua volontà. Il tema è svolto secondo le corde espressive del regista, che ha già sin qui saputo dar sfoggio della propria “poetica intima e realistica” capace di “esplorare con sensibilità e profondità le relazioni umane”.
Ad Anna è venuto un camion addosso, e sta male. Inizia così Taxi Monamour, colla macchina da presa di Ciro De Caro puntata senza filtri sul bel volto della protagonista, ripreso in un primo piano che enfatizza l’intensa recitazione di Rosa Palasciano, candidata nel 2022 come Miglior Attrice Protagonista ai David di Donatello, proprio grazie alla precedente opera di De Caro, Giulia; dopo una lunga attività teatrale che comprende un’esperienza con la Compagnia DOO dell’Odin Teatret. Inizia così perché De Caro ci tiene a mettere immediatamente in campo il suo pedigree e il suo pantheon di modelli di riferimento.

Il suo stile è volutamente “sgrammaticato” e piuttosto citazionista, con un montaggio anticonvenzionale che rifiuta il découpage classico fatto di ordinari campi-controcampi, optando piuttosto per una serie di inquadrature sghembe e di tagli in asse (i cosiddetti jump-cut) che sembrerebbero voler restituire un senso di prossimità agli attori di cui si sollecita un’interpretazione naturalista che rifugga dall’artificio retorico del cinema mainstream; ma anche utili a trasmettere, come da grammatica cinematografica, un senso di precarietà e di inquietudine,  espediente questo non immemore della rivoluzione godardiana in cui il ricorso al taglio in asse era praticato per mero scopo estetico – si pensi a Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960) – ma anche per inverare le sue teorie cinematografiche.

Rosa Palagiano

Ad avallare tale ipotesi, le parole dell’altra protagonista del film, l’attrice ucraina Yeva Sai, impostasi sui set delle ultime tre stagioni di Mare Fuori, dopo la fuga dalla patria in guerra: “Dopo la prima prova, Ciro mi ha detto che dovevo dimenticare tutto, che dovevo recitare come mi sentivo, improvvisare, non per mettermi in difficoltà ma solo per togliere tutto ciò che era artificiale. Ha un orecchio molto sensibile e preciso, durante tutte le riprese ci fermava sempre se sentiva anche un minimo accenno di finzione”.
Ecco dunque l’uso della camera a mano che riprende i dialoghi dei personaggi con una autenticità da Dogma 95 danese; il problema è che questa recitazione à l’impromptu, questa ricerca dell’effetto naturalistico a tutti i costi, in cui tuttavia la macchina “si vede”, sembra forse troppo programmaticamente ricercata; trasformando la supposta estetica minimalista delle intenzioni in una serie di dialoghi e situazioni che finiscono per risultare talvolta paradossalmente innaturali. Si veda da tale punto di vista la scena dell’abbordaggio delle due ragazze da parte di due giovani maghrebini in cui si ode per la prima volta la formula che dà il titolo al film, e in cui tale difetto ci sembra palesarsi per la prima volta nitidamente. Il regista, insomma, partito con l’obiettivo di optare per una cifra poetica anti-retorica, a volte, finisce per enfatizzare piuttosto l’inessenziale e l’irrilevante e non valorizzare il sobrio e il naturale, a nostro modesto avviso.
I virtuosismi del resto sono tanti e palesi, e non del tutto impropri, sembrerebbero anzi voler definire un contesto sintattico ben preciso e molto originale. Ci sono ad esempio scene in cui l’azione si svolge fuori campo e la drammaturgia è pertanto affidata ai soli dialoghi, quasi a sottolineare la sfocatura scentrata di certi rapporti sentimentali periclitanti e ormai per l’appunto letteralmente alla deriva. Oppure altri dialoghi su argomenti ricorsivi e reiterati (chi sia stato operato di appendicite tra i fratelli della protagonista; un’infinita discussione sul taglio di capelli; la scena del “ballo dei single” vagamente estenuata, etc.), recitati come una jam-session piena di inciampi e di battute improvvisate quasi si fosse su un set di John Cassavetes, anch’esso un modello di riferimento denunciato apertamente. O ancora altri dialoghi ancora risolti con delle panoramiche a schiaffo come accade in certi film di Woody Allen, come Mariti e mogli oppure Harry a pezzi, fotografati dal nostro Carlo Di Palma. Infine, veri e proprio fuori-fuoco di stampo documentaristico o in stile found-footage. Un’ossessione neo-verista che può rischiare di veder frustrato il proprio scopo, come se la verità perseguita così programmaticamente finisse per trovarsi sempre un passo prima o un passo dopo rispetto a dove gli autori immaginano che stia.
In tutti i casi, rilevate queste mie perplessità, la cultura cinematografica di De Caro è innegabile, e ciò va sottolineato senz’altro indugio, lodandola. Accanto ad altre indubbie benemerenze che Taxi Monamour mette bene in risalto.

La prima è la sua capacità di sintonizzarsi col presente: il riferimento al conflitto che incendia da oltre due anni l’Europa orientale riaccende nella memoria le parole del direttore Alberto Barbera, che in sede di presentazione di questa Mostra di Venezia ha dichiarato che la kermesse sarebbe stata percorsa dalle contraddizioni sanguinose di questa tragica contemporaneità, contaminandola e facendola talvolta deflagrare. Lo sottolinea la Palasciano, che – come già ricordato – oltre a recitare ha anche scritto il copione: “La guerra è un tema che abbiamo provato ad affrontare con molto rispetto, cercando una giusta misura. A un certo punto ci siamo resi conto che stava diventando per noi lo specchio di due guerre interiori. Quella di Nadiya, costretta a vivere in un paese che non ha scelto e nel quale però inizia a muoversi con grande maturità, e quella di Anna e della sua malattia, che la sveglia dal torpore di una vita agiata ma spenta e che la sprona a cercare la sua vera identità”.
Il secondo snodo praticamente ineludibile sviscerato dal film è quello del cosiddetto “empowerment femminile”: dal me-too alla consapevolezza woke scaturita dalle conseguenze dei femminicidi, oggi più che mai le storie non soltanto di celluloide non possono non dirsi in qualche modo “femministe”, come ci hanno insegnato due fenomeni cinematografici della passata stagione e cioè  i successi non solo di botteghino di Barbie e di C’è ancora domani. In Taxi Monamour il tema è declinato rappresentando il concetto ultimamente tanto evocato di “sorellanza”, tramite l’attrazione fatale tra le due protagoniste sempre a un passo da diventare omoerotica.
L’uomo (il maschio, per meglio dire) è ormai – non solo qui, beninteso – non più indispensabile, forse persino superfluo: di solito – come qui, invece – egli è vacuo, fedifrago, distante, distratto, etc. Lo si spiega molto chiaramente, lo spiega un regista uomo che parrebbe, come molti suoi coetanei, aver introiettato un vero e proprio senso di colpa per la secolare primazia del nostro “genere”, che ora – è chiaro – ha da essere espiata.

In sala dal 4 settembre


Taxi Monamour Regia: Ciro De Caro; soggetto e sceneggiatura: Ciro De Caro, Rosa Palasciano; fotografia: Manuele Mandolesi; montaggio: Jacopo Reale; scenografia e costumi: Valentina Di Geronimo; interpreti: Rosa Palasciano, Yeva Sai, Valerio Di Benedetto, Ivan Castiglione, Matteo Quinzi, Taras Shynyshyn, Halyna Havryliv, Laurentina Guidotti; produzione: Simone Isola e Giuseppe Lepore per Kimerafilm, in associazione con Michael Fantauzzi per MFF, in collaborazione con Rai Cinema, con Adler Entertainment e con il contributo del Ministero della Cultura; origine: Italia, 2024; durata: 110 minuti; distribuzione: Adler Entertainment.

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