Il canto del pavone di Sanjeewa Pushpakumara

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Se si dovesse trovare un aspetto di questo film che più di tutti rimane nella memoria visiva di noi spettatori certamente lo si potrebbe rintracciare nella recitazione spesso statica degli attori. Immobili, infatti, ce li ritroviamo quasi sospesi a rimembrare fatti del passato come dell’immediato presente. Anzi, il più delle volte a tenerli fermi con lo sguardo perso, alla ricerca di chissà quale redenzione, è in fondo un mix di pensieri e immagini che fondendo insieme presente e passato gettano le loro vicende “umane, troppo umane” nello sconforto più assoluto, tanto da preferire l’essere saldi e fermi invece che ipotizzare di darsi a un nuovo movimento che quasi sicuramente si trasforma daccapo in un “falso movimento”.

La storia, che questa curiosa co-produzione italo-srilankese ci narra, ci conduce nella grande città di Colombo (Sri Lanka), dove il diciannovenne Amila si ritrova (venendo da un piccolo villaggio rurale) insieme a due fratelli e a due sorelle più piccoli, dopo aver perso entrambi i genitori. Una famiglia smezzata che vaga nella capitale per trovare mezzi di sussistenza e soprattutto una grossa somma di denaro al fine di curare la piccola Inoka, affetta da una grave malattia cardiaca e perciò ricoverata giorno e notte in ospedale. Ogni loro direzione, ogni loro tentativo di riuscire nell’impresa si risolve in un nulla di fatto, se non in situazioni che rischiano di peggiorare ulteriormente le loro condizioni già abbastanza precarie. Si accampano nello “scheletro” di un palazzo non ultimato dove si ritrovano tutti insieme alla fine della giornata. Una ragione superiore, assoluta si potrebbe dire, di vita però li tiene saldamente insieme: il ricordo vivissimo dei genitori, che è anche materialmente presente grazie ai loro due ritratti fotografici appesi a un muro. A questi rivolgono continuamente lo sguardo, e così facendo trovano la forza per andare avanti. Ma l’effetto dura poco: Amila non riesce a guadagnare più di tanto tra cantieri e lavori saltuari, mentre i restanti tre fratelli minori gli vengano tolti e affidati a un istituto di recupero perché colti a chiedere l’elemosina mendicando per strada (pratica illegale). Quando anche il destino sembra ormai gettare la spugna per i nostri protagonisti, Amila fa la conoscenza di Malani che gli promette lauti compensi per accettare di lavorare per lei. Si sa, dove ci sono soldi facili qualcosa non torna. Infatti dietro la proposta non rifiutabile Amila si trova coinvolto in un traffico illecito di neonati che vengono dati in adozione a famiglie occidentali (in particolare europee). In questo mondo Amila, pur guadagnando forse più di quanto sperava, non si trova a suo agio e proverà a venir via. Incontra lì Nadee, una giovane madre tra le tante in attesa di consegnare il proprio bambino alle famiglie richiedenti, a cui si lega in modo stretto. Eppure, il bisogno di denaro lo tiene come in catene, anche perché Malani gli ha promesso di aiutarlo per far operare la sorella malata. L’organizzazione criminale di Malani verrà poi scoperta e smantellata. E Amila finisce pure in carcere.

A questo punto lo spettatore pensa che il male e il cinismo vincono sempre e che anche questa volta ci si ritrova di fronte al medesimo finale riscaldato. E qui che l’opera finalmente, con un pizzico d’audacia, sfida chi guarda e scompagina un po’ le carte sul tavolo. Malani, ormai alle strette, può avere l’occasione per provare a nobilitare in un certo senso la sua vita. Infatti, si prenderà lei cura della sorella malata di Amila e la farà operare a sue spese. Nadee a sua volta prenderà con sé i fratelli di Amila che tutti insieme aspettano in attesa della sua uscita dal carcere. Se in un primo momento Malani risulta essere il personaggio spietato e sprezzante di tutta la vicenda, alla fine accetta di affrancarsi dalla sua stessa figura. Perché? Il motivo sta nel fatto che anche lei è stata madre di un figlio, purtroppo deceduto appena maggiorenne. E questa tragedia non può che essere rimasta dentro di lei come una fitta che quotidianamente le causa dolore e rimorsi. Non può uscire di scena come se nulla fosse e lasciare dunque Amila e i suoi fratelli abbandonati al loro fato. La si vede agire per la prima volta in una direzione “disinteressata”. E solo dopo, una volta assolto il compito inatteso, scompare con i suoi segreti e i suoi drammi alla volta di chissà quali strade da intraprendere ancora.

In sala dal 19 ottobre


Il canto del pavone  (Peacock Lament) – Regia: Sanjeewa Pushpakumara; sceneggiatura: Sanjeewa Pushpakumara; fotografia: Sisikirana Paranavithana; montaggio: Giuseppe Leonetti; musiche: Cristian Carrara; interpreti: Akalanka Prabashwara (Amila), Sabeetha Perera (Malani), Dinara Punchihewa (Nadee), Lorenzo Acquaviva (Carlo), Mahendra Perera, Lahiru Prasad, Amiththa Weerasinghe, Maheesha Nethara, Naween Saumya, Danuji Dinanya, Sangeetha Nilnadee Godagama, Dulan Manjula Liyanage, Banuja Mandiewu; produzione: Andrea Magnani, Chiara Barbo, Sanjeewa Pushpakumara, Amil Abeysundara per Pilgrim, Sapushpa Expressions; origine: Sri Lanka/Italia, 2022; durata: 102 minuti; distribuzione: Pilgrim Film.

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