L’ultima volta che siamo stati bambini di Claudio Bisio

  • Voto
2.5

Non è la prima volta che la dimensione favolistica e fanciullesca viene scelta come prospettiva per raccontare l’atrocità e la crudeltà tutte adulte della guerra: l’esempio più recente, che si spingeva con audacia fino ai territori del fantastico e dell’avventuroso, è stato Freaks out di Gabriele Mainetti, dove la banda di improvvisati e grotteschi anti super eroi era guidata da una vibrante ragazzina capace di infiammare con la sua passione e la sua rabbia un plotone dell’esercito nazista. Non hanno poteri soprannaturali invece gli ancor più piccoli protagonisti de L’ultima volta che siamo stati bambini, con cui Claudio Bisio si mette in quota agli attori passati dietro la macchina da presa, partendo dal romanzo omonimo di Fabio Bartolomei. E la Storia è , ineluttabilmente, sempre la stessa, cosi come la porzione di tempo e di spazio nella quale quei fatti sono realmente accaduti: siamo a Roma, nell’estate del 1943, durante l’occupazione tedesca fatta di rastrellamenti, rappresaglie, deportazioni. Per quattro bambini, compagni di gioco di diverse estrazioni in quell’infuocata estate romana (Italo dall’emblematico nome, figlio di un federale fascista, Cosimo con il padre al confine, Vanda, orfana accudita dalle suore, e Riccardo, di famiglia ebraica), la guerra è anche solo un gioco di ruoli nel quale è possibile mischiarsi e allearsi al di là delle grandi potenze militari che aleggiano minacciose sopra le loro teste , come le sirene  notturne che annunciano i bombardamenti. Il rituale infantile, quasi la necessità  di esorcizzare attraverso il controllo e la ripetizione della pantomima la tensione per un pericolo reale (c’è in questo  anche una eco de La guerra dei bottoni, il romanzo di Louise Pergauld più volte adattato per il cinema), si incrocia su quel concreto e metaforico binario verso la vita e verso la morte. Riccardo viene infatti deportato su uno dei tanti treni diretti verso un campo di concentramento e i suoi amici decidono di andarlo a salvare, con lo stesso equipaggiamento di fantasia e gli stessi costumi da soldati di un esercito immaginario, all’interno del quale può succedere che un figlio di un fascista e il figlio di un ebreo siano commilitoni e che uno voglia salvare l’altro (qui qualcuno ricorderà l’incontro segnato dal filo spinato e da un tragico gioco delle parti tra il piccolo tedesco e il piccolo ebreo ne Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman, 2008, dal romanzo di John Boyne).

Di carne al fuoco, seppur mitigato dalla leggerezza di un’anticipata meglio gioventù, ce n’è dunque molta, e la regia di Bisio, trattandosi di un esordio chissà quanto per vocazione, resta nei binari, stavolta narrativi (senza scomodare un punto di vista estetico dove non appare una particolare attenzione) a lui più congeniali anche come interprete: una certa lunare brillantezza e una tenerezza /empatia nel descrivere quei bambini costretti a forzare l’età delle scelte e dei posizionamenti contro il traumatico succedersi di eventi la cui tragicità rimane sullo sfondo come un orizzonte inconcepibile e fraintendibile fino alla fine (si veda il personaggio di Italo). Forse il limite di una simile scelta, seppure di saggia cautela, sta nel rimanere troppo in superficie, con una patina illustrativa che intrattiene ma riduce ad una dicotomia monocorde tra una sequela di sketch accattivanti e dolceamari  e il monito edificante sui bambini che sanno superare le abissali ingiustizie perpetrate dagli uomini ai loro simili.

È presente infatti il contro campo (adulto) rappresentato dal fratello milite del fascio di Italo e dalla giovane suora che ha un particolare legame materno, o di sorellanza maggiore, con Vanda. Due “uniformi” , che rappresentano anche due modi di vedere la guerra diametralmente e piuttosto schematicamente opposti, che dovranno fare i conti, nella verità della relazione affettiva con quei loro congiunti di sangue e per scelta, con l’aspetto illusorio e disincantato delle loro certezze. La criticità sta proprio nel fatto che probabilmente si poteva osare di più nello spingere la mescolanza di drammatico e comico, di dissacrante e delicato, simpatico e perturbante (com’ è perturbante da sempre l’immagine di quei treni carichi di esseri umani che viaggiavano verso il programmatico e organizzato sterminio di massa). Invece c’è una staticità che rende ogni mossa dei nostri eroi in miniatura prevedibile per quanto toccante, annunciata per quanto non priva di una grazia e di una sensibilità che appaiano autentiche, e dunque apprezzabili e non soggette ad affondi o pretese eccessive (che non sono già contemplate dal film per come è stato realizzato nelle intenzioni e nei fatti). Lo stesso breve ritratto di piccolo, patetico omino fascista che si ritaglia il Bisio attore sembra la versione sbiadita dello strepitoso federale che Ugo Tognazzi incarnò, con la sua duttile maschera di malinconico borghese piccolo piccolo, per Luciano Salce. Ecco, Il federale (1961) è proprio un esempio di come il cinema italiano ha saputo declinare in un’unica espressione il mood della tragicità e quello della commedia su un argomento come la dittatura nazifascista e le sue catastrofiche conseguenze (sicuramente ancora impresse nella carne viva dell’Italia che si affacciava appena  ad un’ epoca di profondi mutamenti politici e sociali con il riverbero del passato ); un soggetto poi divenuto troppo addomesticato ed edulcorato da una rassicurante piattezza che è però mancanza di espressione e di profondità di campo.

Qui è sufficiente l’empatia per interposto sguardo della personalità di Bisio a far mantenere l’attenzione, per quanto distratta, durante la durata di una missione impossibile ad altezza di ragazzino.Ma lo spettacolo rischia di farci dimenticare qualcosa che riassumibile con il commento di Godard sul film di Roberto Benigni (altro chiaro modello nell’immaginario di riferimento per L’ultima volta che siamo stati bambini): “Avrebbe dovuto chiamarlo La vita è bella a Auschwitz”.

In sala dal 12 ottobre 


L’ultima volta che siamo stati bambini Regia: Claudio Bisio; sceneggiatura: Claudio Bisio, Fabio Bonifacci dal romanzo omonimo di Fabio Bartolomei; fotografia: Italo Petriccione; montaggio: Luciana Pandolfelli; interpreti: Vincenzo Sebastiani, Alessio Didomenicoantonio, Carlotta De Leonardis, Lorenzo McGovern, Federico Cesari, Marianna Fontana, Antonello Fassari, Claudio Bisio; produzione: Solea, Bartleby Film, Medusa Film; origine: Italia, 2023; durata: 90 minuti; distribuzione: Medusa Distribuzione.

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