Il teatro non è morto.
Nel panorama della regia italiana scegliere drammaturgie di Caryl Churchill, la celebre drammaturga e scrittrice britannica, equivale ad assumere una posizione ben determinata rispetto alla visione contemporanea del teatro e del suo momento di “conservatorismo”.
È ciò che ha fatto Lisa Ferlazzo Natoli nel dirigere L’amore del cuore (andato in scena di recente al Teatro Vascello di Roma) una delle pièce più emblematiche del pensiero dell’autrice londinese, che non a caso è considerata dalla critica internazionale tra le più importanti autrici viventi.
Caryl Churchill rappresenta attualmente una delle voci teatrali più significative per i contenuti trattati, molti dei quali vertono sulla tematica che assilla da sempre indistintamente qualsiasi tipo di società: il potere.
Elemento antropologico che può essere declinato su più piani e nel caso della Churchill si spazia dal colonialismo inglese alle tematiche femminili e femministe.
Non a caso il suo primo vero e proprio testo per il palcoscenico è Owners, una piece di due atti e quattordici scene sull’ossessione del potere, prodotta a Londra nel 1972. Gli ideali socialisti della Churchill apparivano già ben chiari in quest’opera, che è una critica all’etica capitalista e ai suoi corollari: l’aggressività, la necessità di avere successo a ogni costo, raggiungere il massimo del risultato.
Altro elemento che risuona e echeggia nelle opere della drammaturga inglese è l’influenza dell’epica brechtiana, uno dei riferimenti artistici e stilistici fondamentali nella sua carriera di scrittrice.
La scomposizione e l’effetto della Verfremdung (straniamento) di Brecht sono, e non a caso, presenti anche nella prospettiva registica di Lisa Ferlazzo Natoli, la quale ha scelto un testo molto compatibile con i principi del teatro del maestro tedesco.
La scelta de L’amore del cuore è comunque più collegato alla visione di destrutturazione e ricomposizione a più livelli della drammaturgia spostando il significato di una storia familiare e di sentimenti contrastanti fino a svuotarla, tanto che lo stesso spettatore si aspetterebbe una soluzione sintattica che però non arriverà mai durante lo spettacolo.
Anche attraverso quest’opera la tematica del potere è comunque presente ed è collegata al valore testuale e alla sconfinata responsabilità che hanno regista e attori nel mettere in scena qualsiasi drammaturgia.
All’inizio il racconto sembrerebbe quello di una banale famiglia britannica denotato da una certa linearità: I genitori Alice e Brian, la zia Maisie, il figlio Lewis aspettano il ritorno dall’Australia della sorella maggiore Susy. Mentre quest’attesa accade emergono (ma saranno veri?) inquietanti ricordi del passato: una relazione adulterina di Alice, un misterioso cadavere in giardino.
Nel frattempo si svelano tensioni irrisolte e beghe familiari che riguardano il rapporto dei genitori con il figlio, le paure notturne di Maisie, gli accenni a una possibile pulsione incestuosa di Brian per la figlia, il suo desiderio auto-distruttivo confessato in un dipanare di eventi dolorosi e al contempo eccitanti.
E’ dunque un testo che si presterebbe molto ad una rappresentazione con tutti i crismi teatrali, ma di sicuro non è la mise en scene di una storia da raccontare l’obiettivo di Caryl Churchill, così come non lo è per la regista romana, che infatti è in grado di far emergere con molta enfasi tutti gli stati e le fasi di lavoro e l’interpretazione degli attori (in questo caso: Tania Garribba, Fortunato Leccese, Alice Palazzi, Francesco Villano e Angelica Azzellini) durante una rappresentazione teatrale.
Il titolo L’amore del cuore non si riferisce tanto all’amore familiare e al legame piuttosto discutibile della storia dei personaggi, ma molto probabilmente all’amore di un interprete nei confronti di qualsiasi valore testuale.
Nonostante il continuo interrompere, spezzare, reinventare e sconvolgere del valore semantico, emerge un amore sconfinato dell’attore nell’eseguire e nell’auto dirigersi.
Caryl Churchill ci conduce ancor una volta nei meandri del potere, questa volta però si riferisce alla possibilità della lingua e della forza della drammaturgia, che seppur svuotate del contenuto assumeranno sempre un valore artistico grazie a coloro che il “teatro” lo evocano e lo rendono possibile: i registi e gli attori, come quelli che ci divertono e illuminano la messa in scena di Lisa Ferlazzo Natoli.