La meravigliosa storia di Henry Sugar di Wes Anderson

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Come una sorta di matrioska che riproduce il senso di un meccanismo estetico e narrativo, La meravigliosa storia di Henry Sugar, il cortometraggio che Wes Anderson ha realizzato a partire dal racconto di Roald Dahl, è un sunto di tutti gli aspetti più derivativi ed evanescenti dello stile del cineasta statunitense: c’è la dimensione dimostrativa e straniante della scrittura che si fa espressione orale e visiva, con lo stesso Dahl, interpretato da Ralph Fiennes , ripreso all’ interno dello studio dove annuncia che comincerà a scrivere la storia di Henry Sugar.

E si tratta sin da subito dell’esasperazione di un decor scenografico che abbiamo visto fin nel  penultimo The French Dispatch (mentre è in uscita in questi giorni in sala Asteroid City), con la eco dei fondali di cartapesta del cinema hollywoodiano dell’ epoca aurea dello Studio system da una parte e una rifinitura da cinema d’animazione polacco o sovietico dall’altra. Ad un livello ancora più basico potrebbe trattarsi quasi dell’ adattamento cinematografico di un libro pop up (quei volumi per bambini con le illustrazioni in 3 D che escono fuori dalle pagine ) e trattandosi di una fiaba di Dahl questo potrebbe avere anche un perché. Solo che mentre il 3D di un libro pop up è qualcosa di tangibile che ha un’ estensione in altezza e profondità, i personaggi di Anderson rimangono su un piano di bidimensionalità non solo figurativa: Dahl che introduce la storia di Henry Sugar, gentleman inglese e incallito giocatore d’azzardo, il quale a sua volta introduce la storia di Imdad Khan, l’ uomo indiano che vedeva anche senza gli occhi, non introduce una stratificazione di narrazioni e punti di vista e probabilmente neanche una matrioska come si diceva all’ inizio.

Non c’ è uno scoperchiamento o uno smascheramento che potrebbero rivelare l’ effetto mistificante e artificiale della vicenda (tutti i paesaggi e gli interni, dalle dimore dell’ alta società britannica e dalle sale dei casinò che frequenta Henry alla foresta indiana in cui Imdad trova il guru che gli indica la pratica meditativa per imparare a vedere senza vedere, sono rappresentati secondo un elementare immaginario un po’ stereotipato), ma lo scorrere di finestre incorniciate da una ricercatezza del dettaglio tanto curata quanto sterile.

È come se fosse richiesta più ammirazione che concentrazione e in effetti la fruizione sulla piattaforma on line non toglie nulla alla possibilità di distogliere lo sguardo da ciò che si sta vedendo e poi tornare ad uno spettacolo che è rimasto statico ed inerme.

Si ha l’ impressione, e non a caso  impressione perché si rimane ad un livello di superficie e non si scende mai in profondità è che Anderson, del quale appare trasparente e un po’ compiaciuta
l’ intelligenza, stia mettendo in scena un processo di appiattimento ed esposizione bidimensionali di immaginari però ben più dolenti e problematici; perche Dahl in fondo anche in questo racconto parla di noia esistenziale, di ossessioni , di smarrimenti identitari tra travestimenti truffaldini e impulsi filantropici (Sugar, acquisendo la tecnica raccontata da Imdad ad un medico in un ritrovato quaderno di appunti, diventa un milionario campione di black jack sotto varie e mentite spoglie per poi dare tutto in beneficenza). E già Grand Budapest Hotel era dedicato alla sensibilità tragica e all’ emozione prosciugata del grande scrittore austriaco Stefan Zweig, pur anche qui riportandone le tracce e i segni come atmosfera contemplata e non come spirito sentito.

Che la visione del mondo di Anderson sia solo il reiterarsi di una serie di laconiche pantomime estraniate dalla realtà (e il distacco/dissociazione tra corpo e pensiero e proiezione e incarnazione l’ unica forma possibile di esistervi) sarebbe interessante se rivelasse in extremis a una levigata tendenza iconica una frizione, una crepa, una zona franca attraverso la quale possono transitare eccentriche una nevrosi oppure una tensione (pensiamo a I Tenenbaum o a Moonrise Kingdom dove c’erano ancora vita e corpi frementi e trasbordanti). Si imprime invece sempre di più la cartolina di un trucco, un giochetto, un panorama senza orizzonte e solo orizzontale.

Un respiro che parte come la calunnia -venticello del barbiere di Siviglia di rossiniana memoria ma non diventa mai quel colpo di cannone che esplode e fa esplodere la struttura codificata e satura della società dello spettacolo (qui il riferimento , come contrappasso è al Charlie Kaufman di Sto pensando di finirla qui, peraltro transitato sempre su Netflix).
La zona franca sembra ormai definitiva e decadente zona confort creata da un immaginario ripiegato su se stesso, per potersi in qualche modo nascondersi nella forma- sostanza di una sopravvivenza a perdere.

Parafrasando dunque il titolo dell’ ultimo film di Ari Aster, le cui smagliature ed esasperazioni andavano quanto meno a toccare le viscere e non le superfici, il retro pensiero più inquietante che lascia questo superfluo divertissement è uno solo: Wes ha paura.

Passato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia 2023
Su Netflix dal 27 settembre


La meravigliosa storia di Henry Sugar (The Wonderful Story of Henry Sugar)  – Regia e sceneggiatura: Wes Anderson; fotografia: Robert Yeoman; montaggio: Barney Pilling, Andrew Weisblum; musiche: Alexandre Desplat; interpreti: Ralph Fiennes, Benedict Cumberbatch, Ben Kingsley, Dev Patel, Richard Ayoade; produzione: American Empirical Pictures; origine: Usa, 2023; durata: 37 minuti; distribuzione: Netflix.

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