Se questa recensione fosse written and directed by Wes Anderson (magari pubblicata proprio sul The French Dispatch) ciascuno dei prossimi paragrafi sarebbe scritto con un colore differente e magari ogni riga all’interno dei paragrafi avrebbe un diverso carattere, qualcuna doppia, un’altra a specchio. Ma se questa recensione non soltanto fosse scritta da Anderson, ma si trattasse dell’ultima opera dello stesso, The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun, anche ogni parola avrebbe qualcosa di peculiare, anzi, persino le singole lettere. E il contenuto?
Il contenuto andrebbe in secondo piano perché la decima fatica del regista statunitense cerca la forma più che la sostanza, viaggia oltre lo spasmodico, il meticoloso, il dettaglio. Insomma, oltre Wes Anderson stesso.
Dal Giappone (L’isola dei cani, 2018) Wes Anderson va in Francia, passando in concorso per Cannes 2021 e fermando la cinepresa nella città immaginaria di Ennui-sur-Blasé, dove Arthur Howitzer Jr., lo stimato fondatore e direttore del The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun, viene trovato morto nei suoi uffici. Attorno a lui si riunisce la redazione di questa rivista americana ad ampia diffusione, tutti quanti intorno al feretro per scrivere il necrologio del periodico, gli ultimi quattro articoli, e il necrologio, quello vero, del mentore.
È da qui in poi che il film rivela appieno la sua natura di rivista, come il The New Yorker (amata in gioventù dal regista), dove ogni pagina si fa inquadratura ricercata e ogni frase un set differente (130, uno più uno meno), nonché omaggio della parola, quella scritta, che per l’intera pellicola danza con le immagini (sopra, sotto, di lato, nascosta) fino a sfidarle. Il tutto in quattro quadretti/articoli contenenti al loro interno altre scenette e così via, secondo il caro gioco delle matriosche.
Si parte da un ciclo-giornalista, goffa guida per la scoperta di quell’Ennui-sur-Blasé, cittadina con i suoi «saprofagi topi, gatti, anguillette, chierichetti, studenti, vecchi, che hanno fallito», intima celebrazione della Francia e del suo cinema, e si passa alla penna di una frizzante critica d’arte alle prese con un detenuto psicopatico, anche pittore, sulle cui opere lucra un mercante d’arte in attesa del grande capolavoro, ispirato alla guardia-musa. Il terzo articolo viene narrato per bocca di un’attempata cronista, non troppo neutrale e comunque testimone di una rivolta sessantottina chiamata “La rivoluzione della scacchiera”, lanciata al grido di battaglia “Les enfants sont grognons” (“i ragazzi sono scorbutici”) e guidata da giovani rampanti bohémien. Dulcis in fundo, un espatriato tipografo mnemonico, inizialmente inviato per intervistare uno chef leggendario e poi catapultato in un poliziesco nel quale un malavitoso, lo “Chauffeur”, rapisce il figlio del commissario per riavere indietro il suo contabile.
Fuori di trama, la ricerca formale si sbizzarrisce: si è immersi in un bianco e nero nel quale l’eccezione diviene il colore, mentre la qualità illustrativa si fa esplicitamente teatrale laddove il fermo immagine di una scaramuccia si realizza con attori immobilmente tremanti, getti di vapore realizzati con lana e bicchieri volanti tenuti da fili (in teoria) trasparenti. Il trucco è tradito, e quanto è bello che lo sia?
E per quanto riguarda il cast? Parla da sé: Bill Murray, Owen Wilson, Tilda Swinton, Benicio del Toro, Tony Revolori, Adrien Brody, Léa Seydoux, Frances McDormand, Timothée Chalamet, Jeffrey Wright, Edward Norton, Mathieu Amalric, Willem Dafoe. Tutti al servizio di Anderson, preda di azioni istintive, meccaniche, bambinesche (corruzione a suon di marron glacé) e in movimento lungo vicende superficiali lontane da qualsivoglia profondità grazie al salvagente dell’ironia («Io non ti amo / Di già?»).
Una pioggia di nomi disposta persino a farsi cartone animato (mancava giusto qualcosa) e, in generale, capace di sottomettere la propria capacità recitativa al singolo gesto, analizzato e amplificato in quella «scatola perfetta, completamente folle» che è il cinema andersoniano. Una visione cinematografica conscia di potersi concedere delle libertà. Ma le libertà, ahimè, si pagano.
Infatti, bisogna ammetterlo: The French Dispatch non è perfetto. Mai il cinema è stato a tal punto rincorsa della soluzione eccentrica, e un capolavoro per essere tale necessita di essere pane per tutti, tanto per gli addetti ai lavori quanto per il pubblico più o meno navigato, invece quest’ultimo film è pane per fan, senza comunque essere pane per fanatici (per ora). È forse l’inevitabile destino di ogni autore di culto (vedi il caso di Quentin Tarantino).
Rimane però una bellissima consapevolezza, e cioè che il cinema andersoniano è fatto da un bambino adulto per un pubblico di simili, nel quale la sorpresa intelligente è il primo moto e la forma legifera sopra qualsivoglia contenuto: un’opera teatrale al cinema, del cinema.
Caramelle d’estetica, caramelle per chi ha occhi tanto per la meraviglia quanto per osservare come la meraviglia è dichiaratamente costruita. E alla fine, per favore, not crying.
In sala dall’11 novembre
The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun – Regia e sceneggiatura: Wes Anderson; soggetto: Wes Anderson, Roman Coppola, Hugo Guinness, Jason Schwartzman; fotografia: Robert Yeoman, ASC; scenografia: Adam Stockhausen; montaggio: Andrew Weisblum, ACE: costumi: Milena Canonero; musica: Alexandre Desplat; interpreti: Benicio Del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton, Léa Seydoux, Frances McDormand, Timothée Chalamet, Lyna Khoudri, Jeffrey Wright, Mathieu Amalric, Stephen Park, Bill Murray, Owen Wilson, Christoph Waltz, Edward Norton, Jason Schwartzman, Anjelica Huston; produzione: Wes Anderson, Steven Rales, Jeremy Dawson; origine: Usa, 2021; durata: 103’; distribuzione: Walt Disney Pictures.