Prima di tutto, c’è il futuro. Prima di tutto, c’è il presente. Prima di tutto, c’è il passato. Ma anzitutto c’è un brodo primordiale nel quale ribollono personaggi che su questa terra ci sono finiti per scherzo della Storia. Ne La Storia di Fausto Cabra, loro tre, Ida e Nino e Giuseppe, non dimenticano mai di essere inchiostro della penna di Elsa Morante, né scordano di essere residuo atavico dell’umano, né tralasciano di essere all’interno di una struttura che era Storia, era romanzo e adesso è pure una pedana sollevata con luci puntate e quinte nude. Insomma, un palcoscenico. Nel quale loro, ancora una volta, devono andare avanti per il tempo concesso da qualcosa che di loro è sempre più grande, e più piccolo al contempo. Perché
È soltanto una commedia la Storia, è una commedia!
Una luce, bianca. La luce bianca crea passerelle che sanno di Storia e sono percorse da Gunther in quel di Roma, quartiere San Lorenzo. Il soldato tedesco è investito anche da una luce verde al sapore di Africa selvaggia e una luce arancione che suona come voce di mamma. Ma Gunther segue la luce bianca e quella si proietta sul corpo e poi scende sul grembo di Ida Ramundo. Maestrina, vedova Mancuso, ha alle spalle una madre ebrea, un marito morto di cancro e un male misterioso (epilessia) che a quel brodo primordiale, mondo nel mondo, la fa ogni tanto tornare. Durante lo stupro, subito dal soldato, il male la coglie e viene concepito quello che sarà Giuseppe: un ragazzo gracile dagli occhi «come specchietti». È uno scandalo, il personale scandalo di Ida, tanto che a Nino, l’esuberante primogenito di Ida, lei stessa non sa che dire: l’ho preso dalla strada. E Nino entusiasta, e già innamorato, risponde: «a’ mà, adesso che ci sta Giuseppe, allora, ci possiamo pigliare pure il cane, qua a casa!». Per esempio uno di nome Blitz. Ne nasce un trio, Useppe e Ino e Biii, a spasso tra strade che presto mutano in macerie. Il pallottoliere della Storia corre, i personaggi devono stare al passo, ma c’è tempo, tempo perché Giuseppe dia pian piano un nome a ciò che lo circonda, come le tondini (rondini), fafafa (farfalla) e lioplani. Quegli stessi lioplani che un giorno scaricano bombe sul loro tetto. Nino, fanatico fascista ingenuo, li ha già abbandonati per raggiungere le camicie nere, Ida e Useppe devono partire. Con loro non hanno nulla, nemmeno Blitz, rimasto sotto i resti della loro casa, e così le loro storie sono appena iniziate.
Morante ha una scrittura sua, da cui non si può e non si deve prescindere. Questo vuol dire che non si può prendere la trama senza le parole che l’hanno scritta. Le due parti non sono scindibili. Fausto Cabra questo lo capisce, e con un espediente narrativo – persona esterna che legge il romanzo, in aeroporto – fa in modo che la parola morantiana sia il cardine. Ed è una parola intricata e pesante quella morantiana, perennemente in colpa come i suoi personaggi, di una colpa però viscerale e genetica, che l’utilizzo di tre soli attori riprende e ribadisce: Alberto Onofrietti è il padre di Ida, ma è pure il marito e così il figlio – nonché Carlo Vivaldi/Davide Segre -, Francesco Sferrazza Papa è Gunther e di conseguenza Giuseppe, mentre Franca Penone è la lettrice esterna e al contempo Ida Ramundo. Due donne di un diverso tempo, entrambe madri. Ma Morante è di una religione sua, appunto primitiva, e così trino è uno e uno è trino: Ida, Nino e Giuseppe sono la stessa cosa, materia pulsante che ha nel male di Ida e Giuseppe la grande fuga nell’essenza nascosta dell’umano, quella essenza seconda, da «danza macabra» e carnalità colpevole, che è oltre tutto. Oltre anche alla Storia, che però torna sempre.
Qualsiasi lettore di Morante sa che il libro non termina con la morte dei tre personaggi, piuttosto non-finisce con il calendario del secolo che prosegue. Senza sosta, macinando. Ma sta Storia, alla fin fine, di che è fatta? L’anno di uscita del romanzo è il 1974, ne La condizione postmoderna cinque anni dopo Lyotard ha cura di mettere per iscritto che tutto era ormai post, comprese le grandi metafinzioni – Cultura, Natura, Politica etc etc -, non si escluda la Storia. Eravamo (siamo) oltre la Storia. E allora la Storia che è? Una costruzione. E così lo è il palcoscenico nel quale i tre si muovono: falso, costruito, fragile. Agli occhi di tutti. Non è però detto che ciò che è artificiale sia inoffensivo. Ci vuole allora un ubriaco infestato da incubi di camere e gas e teste di nazista sfondate perché la verità ci venga detta in faccia
La Storia è una storia di fascismo! Una spirale di omicidi!
La Storia è uno scandalo generale che infierisce sugli ultimi e allora ci vorrebbe una rivoluzione totale, e per farla
Basterebbe respirare, riconoscere Cristo in ciascuno di noi.
E a dircelo in proscenio è un ubriaco. Un ubriaco che però la vita l’ha amata veramente, sino all’ultimo.
La Storia di Fausto Cabra – con l’ausilio drammaturgico di Marco Archetti – è uno spettacolo da vedersi. Soprattutto se si vuole ricordare di cosa sia capace la penna, la sensibilità di una scrittrice come Morante. Perché portare in scena La Storia non è facile, perché effettivamente La Storia in scena viene portata con ciò che ne comporta. Energia istintuale al seguito, meraviglia e terrore. Interpreti efficaci, direzione registica decisa, intelligente utilizzo delle luci, sia quelle fisse che quelle mobili, rispetto estremo del testo nel saper selezionare e così adottare. Lo si tenga ben a mente: se si vuole portare un testo letterario in scena è anzitutto fondamentale saperlo leggere. Non soltanto capire le parole, bensì saperle leggere: le parole hanno un loro spessore. È il privato e l’intimo fatto inchiostro prima ancora che parola o frase o periodale, allo stesso modo di come vi è il primordiale prima del razionale. E visceralità, umanità, densità, come quelle di Ida che – morta nell’anima nel 1947 e nel corpo nove anni dopo – si augura che Nino e Giuseppe, ormai morti, siano arrivati nella loro personale America. O meglio che
siano andati a Vico, dove non ci sono i lupi. Ma solo io e voi.
Spettacolo in scena fino al 19 febbraio al Teatro Vascello, Roma.
La Storia – liberamente ispirato a La storia di Elsa Morante, edito in Italia da Giulio Einaudi; drammaturgia: Marco Archetti; regia: Fausto Cabra; interpreti: Franca Penone, Alberto Onofrietti, Francesco Sferrazza Papa; scene e costumi: Roberta Monopoli; drammaturgia del suono: Mimosa Campironi; luci: Gianluca Breda, Giacomo Brambilla; video: Giulio Cavallini; regista assistente: Silvia Quarantini; consulenza movimenti scenici: Marco Angelilli; produzione: Centro Teatrale Bresciano, La Fabbrica dell’Attore-teatro Vascello