She came to me di Rebecca Miller

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Se si fa eccezione per Wes Anderson che negli ultimi anni ha avuto l’onore di aprire la Berlinale (con Grand Budapest Hotel nel 2014 e Isle of Dogs nel 2018) si fa fatica a ricordare a Berlino film di apertura di particolare importanza: l’anno scorso fu Peter von Kant di François Ozon, nel 2021, nell’edizione online, non ci fu film di apertura, nel 2020 toccò a My Salinger Year di Philippe Falardeau, nel 2019 fu la volta di The Kindness of Strangers di Lone Scherfig. Insomma, diciamocelo chiaramente, niente di particolarmente memorabile (restando solo all’anno scorso, Cannes ha aperto con l’ultimo film di Hazanavicius Coupez! e Venezia con White Noise di Noah Baumbach, neanche questi due film memorabili, ma almeno sulla carta…).

Quest’anno il direttore Carlo Chatrian affida l’apertura a un feel-good-movie di Rebecca Miller intitolato She Came To Me. Si legge che il progetto del film risale al 2017 e che per vicissitudini varie, fra cui una serie di attori che hanno rinunciato, ci sono voluti almeno cinque anni per condurlo in porto, talché She Came To Me costituisce il primo film girato da Miller dopo l’apprezzabile Maggie’s Plan che avevamo recensito da Berlino nel 2016. Rispetto a quel film, distribuito anche in Italia con il titolo Il piano di Maggie – A cosa servono gli uomini, quest’ultimo mantiene l’ambientazione newyorckese e una vaga sensazione woodyalleniana di leggerezza pur non svolgendosi a Manhattan, ma dall’altra parte dello East River, ossia a Brooklyn; il film mantiene anche quell’ambizione – malgrado tutto – tenacemente perseguita nel cinema americano ovvero la ricerca della felicità; d’altronde mai dimenticare che la ricerca della felicità in quel paese è addirittura garantita dalla costituzione. Diciamo che rispetto a Maggie’s Plan  qua il mood alleniano si colora a tratti di sfumature più improbabili, vira verso modalità più grottesche, alla Meet the Parents (Ti presento i miei, 2000) di Jay Roach, giusto per intendersi. Ma, in linea con il film precedente, anche qui ci troviamo di fronte a un’opera di sceneggiatura e di dialoghi con un tutto sommato ridotto manipolo di personaggi che ci vengono presentati separatamente all’inizio, salvo poi, di lì a poco, convergere tutti nel medesimo plot.

Due nuclei familiari paralleli e speculari. Il primo: lei è psicoanalista (Anne Hathaway) ma con una sempre più vistosa vena mistica, lui è musicista di opera in crisi creativa (Peter Dinklage), da una precedente relazione di lei è nato un figlio adolescente Julian (Evan Ellison), upper class con casa strafiga; il secondo: lei, Magdalena, fa la donna delle pulizie ancora senza green card (Joanna Kulig, la protagonista di Cold War), lui fa lo stenografo del tribunale (Brian d’Arcy James), da una precedente relazione di lei è nata una figlia Tereza (Harlow Jane). Come si intrecciano le due storie? I ragazzi s’innamorano, e fin qui nulla di strano. Ma: 1) Magdalena fa la donna delle pulizie nella casa degli altri e su questo, pur con qualche imbarazzo, si potrebbe passare sopra e 2) il padre, in realtà patrigno o padre adottivo che dir si voglia, il personaggio di gran lunga più inquietante dell’intero film (che appunto un po’ ricorda Jack Brynes, il personaggio interpretato da Bob De Niro nel già ricordato Meet the Parents) , in preda ad un assurdo giustizialismo vorrebbe incriminare il ragazzo perché la figliastra è minorenne e i due hanno fatto sesso, malgrado i due si amino alla follia.

Peter Dinklage

Questo è il primo campo di tensione. Il secondo ha a che vedere con la persona che con questi due nuclei familiari non ha nulla a che vedere, ovvero Katrina, la pilota di un rimorchiatore (nomen omen), interpretata dall’ottima Marisa Tomei che nelle pause fra un viaggio e l’altro passa la sua vita appunto a rimorchiare uomini, affetta com’è da quella che viene definita “addiction to romance”. Nelle sue grinfie finisce il musicista Steven, che viene per così dire violentato. Peter Dinklage, come sappiamo, è affetto da acondroplasia (135 cm) e quindi la violenza sarebbe ancor più grave. Ma nessuna preoccupazione: non stiamo vedendo un film da analizzare con gli strumenti dei disability studies. E di questo, lasciate che lo dica, dobbiamo essere enormemente grati a Rebecca Miller. Lungi dal produrre crisi, la violenza riattiva in Steven il circuito di creatività, da tempo inceppatosi: bastano pochi mesi e l’episodio dà luogo a un’opera, opportunamente straniata (la seduttrice che diventa una specie di Katrina la Squartatrice), che reca proprio il titolo del film che stiamo vedendo. L’opera ottiene un grandissimo successo, peccato che fra gli spettatori ci sia anche la pilota. A partire da qui, il film, combinando i due campi di tensione, diventa un action movie di marca almodovariana, qua e là divertente.

Non ci si annoia a vedere She Came To Me che resta apprezzabile per la sua leggerezza, pur con un’idea dell’opera d’arte, a dir poco rivedibile.


Cast & Credits

She Came to Me – Regia, sceneggiatura: Rebecca Miller; fotografia: Sam Levy;  montaggio: Sabine Hoffman; interpreti: Anne Hathaway, Peter Dinklage, Joanna Kulig, Marisa Tomei; produzione: Round Films, Killer Films; origine: Usa 2023; durata: 102′.

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