Così dolci, cosi perverse come apparvero per la prima volta sullo schermo nel 1999, le sorelle Lisbon riappaiono nella riedizione in 4k de Il giardino delle vergini suicide (a cura della Cineteca di Bologna), l’opera prima che rivelò il personalissimo sguardo di Sofia Coppola, la quale è figlia di certo anche cinematografica di Francis, almeno per quanto riguarda quello sfumare malinconico e amaro tra fascinazione e lucidità, tra lo splendore di un musical alla fine del mondo e la lividezza di ambienti, rituali e situazioni dove il sogno confina con l’allucinazione e l’afflato vitale con lo scoramento mortifero.
Traendo ispirazione dal romanzo di Jeffrey Eugenides, che anche altrove ha raccontato le pulsioni e i moti psicoemotivi di corpi in trasformazione (Middlesex, 2002, con al centro la piccola epopea di una persona ermafrodita) , Coppola figlia si misura con lo stupore e la meraviglia di una viaggiatrice in terra straniera nei confronti tanto di un’epoca e di un luogo, siamo in un sobborgo della Detroit degli anni ’70, quanto dei personaggi che vi abitano: le cinque ragazze figlie di una coppia della media borghesia (una madre possessiva e controllante, un padre passivo e assente) sono dunque filmate nella bellezza e nel mistero percepiti dallo sguardo ammirato e attratto dei ragazzini loro compagni di scuola o residenti nel vicinato, il desiderio vicino e lontano a portata di vista; la pulsione scopofila che satura l’atmosfera di una sensualità evanescente e inafferrabile.
Ma la regia non si limita all’identificazione con il meccanismo proiettivo di un gruppetto di adolescenti in calore nei confronti di sorgive fanciulle in fiore, pur mantenendo un sottotesto ironico, presente anche in Eugenides, che decompressurizza il clima asfissiante e morboso: un cul de sac nel quale Lux , la sorella più bella e popolare (interpretata con vibrante grazia da un’iconica Kirsten Dunst collocabile tra le ragazzine ancillari di David Hamilton e la Miranda reincarnata venere botticelliana di Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir), e le altre fanno fatica a prendersi il proprio spazio, schiacciate dall’immaginario erotico e romantico di un’acerba mascolinità e la severità di un matriarcato religioso che segrega, distrugge, rimuove. Una delle sequenze più violente e coercitive è quella nella quale una già imponente (per fisicità ed espressività) Kathleen Turner nel ruolo della madre costringe la figlia Lux/Dunst, scoperta dopo aver perso la verginità con il bellimbusto del liceo (altro tocco ironico, con le fattezze del teen idol dell’epoca Josh Hartnett), a distruggere tutti i suoi vinili della grande musica di quegli anni. Il primo segno dell’annientamento di qualcosa di meraviglioso, liberatorio, dionisiaco e ancora in supporto materiale, laddove è impossibile cancellare la traccia dell’illibatezza perduta. Una lenta spirale di privazioni fino al punto in cui a queste giovani perdute, carcerate nel culto di una purezza ossessiva e malata quanto la controparte desiderante, non resta che la carnalità tangibile e violabile del loro corpo.
Un contro rito pagano e dissacrante che è sempre la spregiudicata e impaziente Lux a celebrare sul tetto di casa, offrendosi a uomini intrufolati tra le piaghe dell’ottuso controllo materno come amanti occasionali, per la gioia voyeuristica degli amici rimasti a guardare dall’altro lato della strada. Tutta la struttura del film si muove in questa sequenza di carezza e schiaffi, di luminose dissolvenze al rallenti e albe blu di laconici rimpianti ante litteram (sempre Lux, abbandonata e stordita al gelo mattutino sopra un campo di football dopo aver fatto l’amore con il suo vile spasimante); lo schermo di Coppola è capace di dividersi per creare il tempo di un ascolto e di un contatto impossibile, come quando i ragazzi, impietositi dalla mancanza di musica per via dei dischi fatti bruciare dalla signora Lisbon, fanno ascoltare a quelle cinque meravigliose, povere creature i loro LP attraverso la cornetta del telefono. Alone again di Gilbert O’Sullivan spicca emblematicamente tra i brani che passano nello split screen, espediente stilistico che ci riporta ad un autore coevo al padre di Sofia, ovvero Brian De Palma, in particolare quello di Carrie, lo sguardo di Satana, del quale passa la stessa atmosfera fitta di morte e di repressione. La necessità di una sublimazione che in Carrie esplode infatti nel suo catastrofico potere telecinetico, mentre nelle Lisbon implode in un ribellione autodistruttiva, concepita e messa in atto per lasciare i corpi ancora caldi di un disagio e di una sofferenza invisibili e spesso disarmanti ,come le fantasie, appunto, di un adolescente.
Qui sta il passaggio più originale e audace dell’esordio registico di Coppola, dallo stupore e la meraviglia dell’inizio allo sgomento e il dolore del molteplice suicidio delle sorelle nel climax conclusivo. Le ragioni del loro atto sono chiare e al tempo stesso non lo sono, possono essere analizzate e comprese sociologicamente (c’è anche una cornice sarcastica che contestualizza il rapporto dei giovani con la morte attraverso un servizio giornalistico) eppure affondano in un’inquietudine più profonda. Non è solo emulazione verso il duplice tentativo (il secondo andato a segno) di Cecilia, la più giovane delle vergini, la prima a togliersi la vita sotto gli occhi delle altre (si getta dal tetto della casa precipitando e rimanendo impalata dal recinto del giardino); è l’impotenza e la rabbia implosa che scaturisce da un avvenimento così radicale , l’istintivo riconoscimento e senso di appartenenza allo stesso malessere esistenziale che Coppola si rifiuta però di trattare con i codici del melodramma o della denuncia sociale. Fiancheggia il pop della commedia adolescenziale e il mood più raffinato di quella di costume, si contamina con l’horror e compone la sua piccola sonata elettronica, facendo della colonna sonora dell’acclamato duo francese, gli Air, un altro personaggio che esprime l’insondabile dimensione interiore delle ragazze, o almeno ne coglie una versione, una parte parziale e minimale per un tutto che reste sfuggente. La variazione dei colori caldi ed elettrici della fotografia di Edward Lachman contribuisce al coinvolgimento-straniamento, a porsi l’interrogativo sull’ambivalenza dell’atto del guardare / desiderare/giudicare la superficie delle bionde svampite o gli abissi delle adolescenti tormentate, l’archetipo delle lolite o la tragedia di un’infanzia abusata dall’ottusità e dalla mancanza di immaginazione ed empatia degli adulti. Incompiutezze e dissonanze che sono i possibili prologhi di una poetica espressa da questo momento in poi da Sofia C., con episodi ora più felici ora più discutibili, attratta sempre e comunque dai vuoti a perdere e dalle fragilità, trasversali per genere, età e status sociali, verso i quali si avvicina con cristallina delicatezza.
Senza dimenticare la tensione sotterranea e relazionale per l’incontro che, come nel videoclip della canzone Playground love degli Air, può avvenire anche tra due chewing gum masticati e appiccicati sotto il medesimo banco di una scuola. Metafora di un’ età giovane ciancicata e sputata da un buco nero all’altro, con nel mezzo gli sprazzi incantevoli di una lux non eterna; una piccola umanità dazed and confused che, pur nel suo abbandonarsi alla morte, non rinuncia all’attaccamento alla vita.
In sala dal 6 maggio 2024
Il giardino delle vergini suicide (The Virgin suicides ) – Regia e sceneggiatura: Sofia Coppola dal romanzo omonimo di Jeffrey Eugenides ; fotografia: Edward Lachman; montaggio: Melissa Kent, James Lyons; musica: Air; interpreti: Kirsten Dunst, Kathleen Turner, James Woods, Josh Hartnett, Scott Glenn, Danny DeVito, Hayden Christensen, Michael Paré, Hanna R. Hall, Leslie Hayman, Chelse Swain ; produzione: Paramount Classics ; durata: 97 minuti; origine: Stati Uniti,1999; distribuzione: Cineteca di Bologna.