Un anno con Salinger di Philippe Falardeau

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Nel febbraio del 2020, pochi giorni prima che si diffondesse a livello globale l’allarme per la pandemia, apriva la Berlinale My Salinger Year  (che arriva adesso in Italia, a distanza di quasi due anni, per le cure di Academy Two) di Philippe Falardeau, film tratto dal romanzo autobiografico di Joanna Rakoff che lo ha anche prodotto.

Come molti film che negli ultimi anni hanno avuto l’onore di aprire Berlino  (Wes Anderson con Grand Budapest Hotel e Isle Of Dogs è forse stato l’unica autorevole eccezione) anche questo non è un film memorabile, trattandosi di un onesto prodotto riconducibile alla categoria di ciò che gli anglosassoni chiamano “period film”, ovvero film storico, film in costume.

Con la differenza che non si tratta di un film ambientato nell’800 e magari tratto da AustenBronte o Alcott e nemmeno di un film che esalta le prische doti di Chruchill, dei vari “kings” o delle varie “queens” o anche solo degli eroici soldati britannici, come nel sopravalutatissimo 1917, ma di un film semplicemente ambientato 25 anni fa nel 1995, in un periodo – così si vuol far credere allo spettatore – che si trova sul limitare di una svolta epocale, la svolta in cui l’era del libro sta per cedere il passo all’era digitale. La co-protagonista del film, l’agente letteraria Margaret conduce con piglio e autorità una storica agenzia letteraria newyorchese, un’agenzia in cui come in un pantheon fanno bella mostra di sé alle pareti le fotografie tutti gli autori di cui si curano diritti (e in qualche misura anche l’ immagine), fin dal glorioso anno di fondazione, il 1927: Scott Fitzgerald e Dylan Thomas e Agatha Christie, fino ad arrivare a quello che all’altezza del 1995 resta il nume tutelare (e da tutelare) numero uno, ovvero Jerome K. Salinger. Da tutelare al punto che Joanna, la protagonista del film, giovane aspirante scrittrice, anzi poetessa, con qualche successo di stima alle spalle, al momento in cui viene assunta da Margaret, si ritrova niente meno che a passare le sue giornate, oltre che a trascrivere le lettere commerciali che la padrona ha pronunciato al dittafono, a esaminare gli enormi pacchi di posta indirizzati da centinaia di fans a Salinger, degnandoli di una risposta standard e poi passando quelle lettere per la macchina che li riduce in striscioline di carta (perché venga dedicato tutto questo tempo a un’operazione sostanzialmente inutile ci viene pure spiegato: dopo aver scoperto che Mark Chapman, l’assassino di John Lennon, era un grande fan de Il Giovane Holden, non sia mai che un qualche altro squilibrato annunci in una sua lettera diretta a Salinger qualche altro dissennato proposito).

Margaret è la sacerdotessa altera che cura questo luogo in cui il tempo è sospeso e in cui l’ingresso di un computer viene consentito solo a prezzo delle insistenze dell’intero team, un oggetto al quale la titolare riserva il disprezzo e la diffidenza di qualcuno che vi vede senza mezzi termini l’incarnazione del Male. Ma Joanna – che, “mirabile dictu”, NON ha mai letto The Catcher in the Rye – è uno spirito assai ribelle, e decide di sua iniziativa di rispondere ad alcune di quelle lettere (una delle sequenze reiterate del film consiste nella, diciamo così, vivificazione delle lettere ricevute, vediamo quindi gli autori immaginati da Joanna e si delineano davanti a noi personaggi più o meno strani che fanno le richieste più assurde a Salinger, pur evidentemente sapendo della sua inavvicinabilità).

Malgrado queste reiterate disobbedienze, il talento e la sensibilità di Joanna vengono notati dalla titolare che vede in lei colei che un giorno potrà succederle nell’esercizio di questo ministero, di questo magistero. Peccato che Joanna abbia tutt’altro in testa e abbia visto questo lavoro solo come una fase (ce lo dice reiteratamente tramite la voce fuori campo, di cui si sarebbe anche potuto fare a meno), senza perdere di vista la propria ambizione: ossia quella di diventare scrittrice – e con la consegna di un volumetto di poesie alla redazione di The New Yorker, luogo ammantato agli occhi della protagonista, entusiasta e volitiva, di un’aura mitica, si conclude il film, dopo che Joanna ha di fatto opposto alla titolare il gran rifiuto.

In mezzo a tutto questo: l’ennesima riproposizione del mito di New York (anche se il film, come ha candidamente confessato il regista canadese Falardeau è stato girato a Montreal) con tutti i tipici stilemi: la ragazza schiacciata dalla verticalità della città, i brownstones, la descrizione, non esattamente nuovissima, di una certa “vie de bohéme” di Joanna col suo ragazzo e con un gruppetto di aspiranti intellettuali e scrittori, la descrizione dell’ambiente di lavoro, una specie di Il Diavolo veste Prada (tutti i collaboratori, quasi tutti maschi, in grande soggezione dinnanzi alla padrona, e lei con fascia di capelli bianchi sul resto della criniera scura, già visto, già visto…), il tutto però, ovviamente, al rallentatore, senza la frenesia di quel film, in omaggio alla difesa del buon tempo che fu. Un film dunque fortemente nostalgico, tutto sommato ben scritto, ben recitato da Sigourney Weaver nei panni della boss e della graziosa Margaret Qualley nei panni della ragazza. L’ora e quaranta del film si trascorre volentieri. Un anno con Salinger tuttavia non resterà nella memoria collettiva, c’è da scommetterci.

In sala dal 11 novembre

My Salinger Year (Un anno con Salinger) Regia: Philippe Falardeau; sceneggiatura: Philippe Falardeau, Joanna Rakoff(romanzo); fotografia: Sara Mishara; montaggio: Mary Finlay; interpreti: Margaret Qualley (Joanna), Sigourney Weaver (Margaret), Douglas Booth (Don); produzione:micro_scope, Montreal; origine:Canada-Irlanda 2020; durata: 101’; distribuzione: Academy Two.

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