L’Immensità di Emanuele Crialese

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Tornato dietro la mdp dai tempi ormai remoti di Terraferma (2011),  il regista Emanuele Crialese ha così ben delineato le coordinate del suo nuovo lavoro, molto atteso, passato in Concorso a Venezia e ora in sala: «L’Immensità è il film che inseguo da sempre: è sempre stato ‘il mio prossimo film’, ma ogni volta lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro. È un film sulla memoria che aveva bisogno di una distanza maggiore, di una consapevolezza diversa. Come tutti i miei lavori, in fondo è prima di tutto un film sulla famiglia: sull’innocenza dei figli, e sulla loro relazione con una madre che poteva prendere vita solo nell’incontro, artistico e umano, con Penélope Cruz, con la sua sensibilità e la sua straordinaria capacità di interazione con tre giovanissimi non attori che non avevano mai recitato prima. Luana, Patrizio e Maria Chiara sono rimasti bambini sempre, e come tali sempre intensamente e immensamente veri».
In un’opera, dunque, “urgente”, di esplicito taglio autobiografico, Emanuele Crialese, ci descrive se stesso e l’Italia, o meglio Roma, alla metà degli anni Settanta – dovremmo essere all’incirca nel 1977 (sommando l’età del regista a quella della sua eroina alter ego) ma di terrorismo, femminismo e di tensioni sociali dell’epoca non ne vediamo quasi l’ombra. Diciamo che il filmmaker romano (classe 1965) ha compiuto una crasi di un decennio, da “Il tema di Lara” – il leitmotiv scritto da Maurice Jarre per Il dottor Zivago (1965, di David Lean) che a un certo punto si sente – alla canzone Rumore/Sì, ci sto cantata da Raffaella Carrà e pubblicata nel settembre 1974. Ma in questo caso vale l’invenzione poetica e non la filologia.
All’interno di una periferia benestante, per niente pasoliniana, da cui si fugge via in una scappottata Citroen DS 19 e dalla quale in lontananza si scorge il Cupolone del Vaticano, è ambientata la storia de L’Immensità: dunque, sostanzialmente, tra un quartiere in costruzione con, dietro un canneto, un campo di “poveri”, e divani sfarzosi da cui vedere la tv e i suoi varietà ancora in bianco e nero – insomma conquiste sociali quasi a zero e soprattutto le esplicite crepe di uno stantio modello familiare borghese.

In tale contesto si sono trasferiti, in un appartamento appena costruito, la spagnola Clara (Penélope Cruz) con il marito Felice Borghetti (Vincenzo Amato) – il loro matrimonio è, come si dice in modo spiccio, alla frutta ma non riescono a – anzi forse non possono – lasciarsi. Perché anche se lui è un maschilista insensibile, rozzo e con i soldi, a tenere unito il nucleo familiare, è la presenza di tre figli su cui la sensibile Clara riversa le proprie aspettative, il proprio desiderio di libertà. In particolare la più grande Adriana (Luana Giuliani) di dodici anni, costituisce il barometro delle tensioni familiari, oltre a vivere sulla propria pelle un fortissimo conflitto di identità: rifiuta il suo nome femminile, si fa chiamare Adri e vorrebbe essere un maschio. Questa condizione di insicurezza di gender, esplicitata sempre con grande ostinazione, porta al deterioramento e al punto di rottura il già fragile equilibrio della famiglia Borghetti (come il noto liquore al caffè che si beveva allo stadio) e soprattutto quello di Clara. Sino a…
Emanuele Crialese costruisce questa sua sentita, talvolta vibrante, talvolta meno efficace, opera memoriale, connotandola e trasfigurandola, a tratti, in un musical quasi alla Almodovar, nel quale i desideri di identificazione dei protagonisti si trasformano in performance musicali in bianco&nero – chi conosce la musica italiana del periodo si potrà divertire ad ascoltare le hit dell’epoca da Adriano Celentano a Raffaella Carrà o Patty Pravo, mentre lo stesso titolo del film è preso dalla nota omonima canzone di scritta da Don Backy, Detto Mariano e Mogol, presentata da Don Backy e da Johnny Dorelli al Festival di Sanremo 1967 (ma qui viene cantata nel finale dalla protagonista).
Last but not least: a questo film sincero ma solo in parte riuscito, Penélope Cruz da una prepotente mano attoriale, candidandosi per il premio dell’interpretazione femminile, certo in difficile competizione con la Cate Blanchett in Tár di Todd Field.  Ma anche Penélope, forse, non è bastata.

In sala dal 15 settembre


L’immensità – Regia: Emanuele Crialese; sceneggiatura: Emanuele Crialese, Francesca Manieri, Vittorio Moroni; fotografia: Gergely Pohárnok; montaggio: Clelio Benevento scenografia: Dimitri Capuani; costumi: Massimo Cantini Parrini; musica: Rauelsson; interpreti: Penélope Cruz, Luana Giuliani, Vincenzo Amato, Elena Arvigo, Patrizio Francioni, Maria Chiara Goretti, Laura Nardi, Penelope Nieto Conti, Alvia Reale, India Santella, Rita De Donato, Mariangela Granelli, Valentina Cenni, Carlo Gallo; produzione: Wildside (una società del gruppo Fremantle), Warner Bros. Entertainment Italia, Chapter 2, Pathé, France 3 Cinema, con la partecipazione di Canal+, Ciné+, France Televisions; origine: Italia/Francia, 2022; durata: 97’; distribuzione: Warner Bros. Pictures.

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