Il suo debutto alla regia risale al 2005, con Forever Blues, malinconico film focalizzato sull’improbabile amicizia tra un trombettista jazz e un bambino introverso, ai limiti dell’autistico. Quindi, con L’uomo che disegnò Dio, è tornato vent’anni dopo da questo suo esordio registico dietro la macchina da presa.
Il film, che trae ispirazione da una storia vera, ha anzitutto il difetto di unire, in modo confuso, troppi spunti rischiando una carenza di approfondimento generale: il protagonista Emanuele (sempre interpretato in modo carismatico dal Nostro), un ritrattista cieco capace di disegnare chiunque ascoltando il suono della voce, a causa della diffusione virale di un video da parte di Iaia, una ragazza africana che viene ospitata a casa sua assieme alla madre, diventa improvvisamente “famoso” e viene portato alla ribalta dalla TV spazzatura come fosse un fenomeno da circo.
Il punto è che l’intreccio di partenza, potenzialmente interessante, si disperde tra le microstorie dei personaggi di contorno, che non vengono mai approfondite e con l’accusa finale di molestie sessuali, davvero poco credibile, ai danni della stessa studentessa che l’artista ospita a casa con sua madre e con la quale, invece, lui instaura un legame puro e leale.

L‘ elemento più riuscito, di un film tutto sommato lento e a tratti poco incisivo, è la contrapposizione netta tra il segreto quasi magico che custodisce Emanuele, capace, pur essendo cieco, di ritrarre volti umani per una sorte di “dote speciale” e la falsa umanità prodotta dai programmi televisivi spazzatura.
Inoltre, il carattere chiuso del protagonista è tratteggiato nel dettaglio e la sua calma serafica e la sicurezza sprigionata ne fanno un uomo d’altri tempi: introverso, distante ma dotato di un’intelligenza e sensibilità, rare e sottili. Un personaggio interessante, spigoloso ma dotato di poche sfumature.
Pola (una convincente Stefania Rocca), la sua assistente sociale, sembra, tra tutti, l’ unica in grado di capirlo e pronta ad aiutarlo e a supportarlo anche nei momenti più difficili. Emanuele e Pola rappresentano, quindi, un universo morale attorno al quale ruotano, come satelliti, anche Maria e la Piccola Iaia, le due donne africane ospitate da Emanuele in cambio di un aiuto in casa. Lentamente tra loro si instaura un legame di affettività domestica, che addolcisce lievemente il carattere ritroso e distante del protagonista.
Fuori dal loro piccolo cosmo, c’è purtroppo la desolazione spirituale e un mondo vano e poco interessante, incarnato dai Talent Show, interessati solo a guadagnare denaro e visibilità mettendo alla berlina individui poco ordinari.
La storia, potenzialmente interessante, finisce dunque per legare assieme, in modo disordinato, troppi aspetti e sembra seguire, soprattutto nella seconda parte, direzioni confuse e poco chiare che rischiano di sfilacciare l’ intreccio rendendolo meno credibile e fluido.
Comunque, nonostante la lentezza di alcuni momenti e lo sfilacciamento della trama, L’ uomo che disegnò Dio risulta piacevole grazie al carisma sempre eterno del suo interprete-regista e all’intreccio di partenza, originale e stimolante.
Ps: Il film ha sicuramente il merito – e non è poco – di aver riportato sullo schermo, in un piccolo ma significativo cameo, Kevin Spacey, dopo anni di allontanamento e di ostracismo da parte dei set hollywoodiani a causa delle accuse per molestie sessuali risalenti al 2017.
In sala dal 2 marzo
L’uomo che disegnò Dio; regia: Franco Nero; sceneggiatura: Eugenio Masciari, Lorenzo De Luca; fotografia: Gerardo Fornari; montaggio: Paolo Guerrieri; musiche: Giuliano Taviani; interpreti: Franco Nero, Kevin Spacey, Stefania Rocca, Robert Davi, Alessia Alciati, Diana Dell’Erba, Isabel Ciammaglichella, Wehazit Efrem Abrham, Massimo Ranieri, Vittorio Boscolo, Simona Nasi, Sofia Nistratova, Andrea Cocco, Diego Casale; produzione: L’AltroFilm, Tadross Media Group e BuldDog Brothers; origine: Italia, 2023; durata: 110 minuti; distribuzione: L’Altrofilm