Neurodiversità e Serie TV – un approfondimento

Con il termine neurodivergente, ci si riferisce solitamente ad una persona nello spettro autistico o, più in generale, a qualcuno il cui cervello elabora le informazioni in un modo atipico rispetto della maggior parte degli individui. 
Benché non si tratti di una categoria clinica (non esiste la neurodivergenza, basata su esiti clinici, fisiologici o strutturali), le persone neurodivergenti possono avere difficoltà di apprendimento, deficit di attenzione, disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, sindrome di Tourette e scarsa empatia. Ma anche straordinaria capacità di concentrazione ed una memoria prodigiosa. Importante è però notare che una persona che ha ricevuto una diagnosi che include le condizioni elencate sopra, o che ha capacità cognitive elevate, non necessariamente è neurodivergente. 

Judith Singer

Il termine-ombrello di neurodiversità è leggermente diverso ma collegato alla neurodivergenza. Con neurodiversità, infatti, si illustra quanto diversificata può essere l’esperienza umana sulla base delle differenti caratteristiche cognitive di ogni individuo.  Il temine è stato coniato nel 1999 da Judy Singer, sociologa australiana con tratti autistici, con lo scopo di offrire una contro-narrativa al modello medico, alla rappresentazione sociale delle persone autistiche e, soprattutto, al tentativo di correggerle o curarle.  Secondo la definizione di Singer, per neurodiversità s’intende: 

“Un paradigma bio-politico interessato alla promozione dei diritti e alla prevenzione di discriminazione nei confronti di persone neurologicamente diverse dalla popolazione neurotipica (o non autistica)”  

Specialmente negli ultimi anni, le serie TV con protagonisti o personaggi principali neurodivergenti si sono fatte via via più numerose, garantendo così una complessità di rappresentazione che comincia ad esplorare diversi aspetti, facendosi più interessante e variegata.  
I sei esempi che approfondiamo sono stati scelti in base a criteri di popolarità e rilevanza, ma anche perché mettono bene in luce le idiosincrasie, le problematiche e l’attenzione riposta nella rappresentazione dell’individuo neurodivergente.  

Atypical di Robia Rashid 2027-2021:  

 

Sam Gardner vive con la sua famiglia, leggermente disfunzionale ma molto amorevole, studia e lavora da Techtropolis, negozio di computer e smartphone, assieme al suo migliore amico Zahid (Nik Dodani) 
Lo seguiamo durante il suo complesso percorso di crescita ed emancipazione, mentre le sue vicende si intersecano con quelle degli altri protagonisti: la sorella Casey (Brigette Lundy-Paine), i due genitori, e la sua ragazza Paige (Jenna Boyd).  
Atypical è una serie che migliora gradualmente, facendosi più delicata e poetica mentre ci si addentra e si entra a contatto con la quotidianità della famiglia di Sam, a partire dai due capofamiglia: una madre iperprotettiva e talvolta prevaricatrice, interpretata dalla brava Jennifer Jason Leigh, che in qualche modo riesce a stemperare la scarsa simpatia suscitata dal suo personaggio, ed un padre talvolta spaventato ed emotivamente confuso, ma al contempo saggio e pacato, interpretato da Michael Rapaport.  
Le vicende dei personaggi che gravitano attorno a Sam, ad eccezione della sua ragazza Paige e del suo migliore amico Zahid, non sono sufficientemente interessanti e producono una certa insofferenza. Alcuni degli archi narrativi introdotti nelle ultime stagioni risultano pesanti e non appassionano, inficiando il risultato complessivo della serie. Tutta la parte della sorella Casey, che scopre la sua omosessualità e instaura una relazione con un’amica, risulta banale, pedagogica e di scarso interesse. I piccoli momenti woke e “ispirazionali” hanno una credibilità molto limitata nel tempo. L’utilizzo di musica rigorosamente indie, il font dei titoli di testa e di coda, i colori pastellati, sono tutte caratteristiche ed elementi che tendono ad uno spirito naïve, leggermente ruffiano. Alla base risuona il concetto che nessuno, visto da vicino, è “normale”, tutti siamo atipici, madre, padre, sorella, fidanzata, amici.  
Sam riflette e racconta aneddoti attraverso una voce Over, con la quale illustra anche le piccole particolarità della sua condizione nel quotidiano, un escamotage estremamente funzionale, ma talvolta eccessivamente didascalico e ridondante. 
Il personaggio di Sam, interpretato da Keir Gilchrist, si fa voler bene. Anche se il registro esteriore che adotta consiste principalmente in un misto espressioni infastidite. Vengono messi in evidenza i suoi capricci, la complessità relazionale, le diverse esigenze, e, dalla terza stagione, anche le difficoltà di apprendimento, quando comincia a frequentare il college.  
La critica che viene mossa ad Atypical per quanto riguarda la rappresentazione dell’autismo risiede principalmente in una certa pigrizia nel considerare la condizione più come una serie di atteggiamenti stereotipizzati messi assieme, piuttosto che come una effettiva personalità con la capacità di integrarli. Troviamo un’infantilizzazione dell’autismo che persino The Good Doctor riesce tranquillamente ad evitare. Avremmo gradito un’esplorazione più profonda e circostanziata del lato sgradevole di Sam, ma né i personaggi né gli scrittori mostrano molto interesse nel ritenerlo responsabile delle sue azioni deliberate. Invece, come afferma Sarah Kurchak su Time, “siamo trattati con un capovolgimento immensamente frustrante in cui Sam deve affrontare più conseguenze per cose che non può controllare (sovraccarico sensoriale, crolli, ecc.) che per ciò che può“. 

Avvocata Woo di Yoo In-shik, 2022: 

Ne abbiamo ampiamente discusso qui, riassumendo, una serie tv deliziosa ed appassionante, che centra il bersaglio su diversi aspetti, in particolar modo quelli relazionali, mentre in altri si rivela piuttosto dozzinale, per quanto riguarda la rappresentazione esteriore dell’autismo e dei suoi tic. 

The Good Doctor di Park Jae-bum (Versione Coreana), 2013   

La versione coreana di The Good Doctor è ambientata in un ospedale provinciale in Corea del Sud, distinguendosi nettamente dalla controparte americana, ambientata nel prestigioso San Jose Bonaventura Hospital. La narrazione, sebbene più lenta e riflessiva, è al contempo meno superficiale ed eroistica rispetto alla versione yenkiee. Le tematiche affrontate sono interessanti e coinvolgenti. Sebbene la fotografia sia piatta e priva di personalità – come spesso accadeva nei prodotti televisivi sudcoreani di qualche anno fa – la regia ed il montaggio si dimostrano molto creativi e dinamici durante gli interventi chirurgici, con soluzioni estetiche suggestive e audaci, come i frammenti di split-screen di ispirazione depalmiana. Il protagonista della serie coreana non è dotato di una personalità adorabile, buffa o troppo simpatica, dimostrando il coraggio degli autori di non cedere alla tentazione di rendere il personaggio più facile da amare per il pubblico. 

The Good Doctor di David Shore (Versione Americana) 2017-in corso   

E’ una delle serie più popolari d’America, arrivato ormai alla sesta stagione, non accenna a fermarsi. La sua formula permette un’iterazione praticamente infinita e la sua struttura a casi garantisce una fruizione continuativa.  
David Shore, autore ed artefice principale della serie, è riuscito nell’intento di dare un’identità e un’autonomia alla sua creatura, anche se i primi due episodi sono praticamente la fotocopia di quella di Park Jae-bum, progressivamente, però, la serie americana si discosta e lo fa cercando di mutarne lo spirito, senza snaturarlo. L’originale si era conclusa dopo due stagioni, la controparte americana ha ottenuto un grande successo e continua ad averne, con sei stagioni composte da ben venti episodi l’una. 
La serie è ben girata e ben costruita, e si rivela scritta meglio di quel che si potrebbe supporre a prima vista: i personaggi hanno tutti archi narrativi interessanti, ed anche i singoli casi talvolta sono capaci di esprimere molto bene alcune situazioni tipiche e dilemmi morali dell’ambiente medicale. Certo, i casi si risolvono quasi tutti felicemente, spesso con miracoli improbabili, i nostri dottori sono per lo più persone di cuore e tutto l’ambiente ospedaliero medico viene leggermente edulcorato, la chirurgia ed i chirurghi rappresentati come “i fuoriclasse” mentre le altre discipline dell’ambiente medicale viste quasi tutte come ripiego. Certi momenti musicali poi, sono realmente difficili da sopportare, e gli aneddoti che vengono snocciolati dai vari personaggi quando partono con l’assolo strappalacrime che vede protagonisti nonni, amici, zii, nipoti, rientrano in una formula chiaramente rodata e stantìa. Ma il bilancio complessivo di ogni puntata non accusa il colpo, a dimostrare che la cornice può benissimo rimanere quella del classico telefilm americano, fatto di eroi e monologhi altisonanti, ma sono sufficienti piccoli tocchi di acume, e una certa padronanza nel dosare la tensione, per farne un prodotto di qualità. Shaun Murphy, (Freddie Highmore) il nostro protagonista, utilizza il solito escamotage dell’individuo nello spettro autistico con sindrome di savant, copiato anche dall’Avvocata Woo, e di cui il primo esempio risale probabilmente al K-Drama Brilliant Legacy (2009). l’interpretazione di Freddie Highmore è uno degli elementi portanti dell’intera serie, il paragone con Park Eun-bin, protagonista di Avvocata Woo, è d’obbligo, date le numerose similitudini tra i due personaggi: entrambi gli attori utilizzano atteggiamenti esteriori simili per rappresentare l’autismo: strana postura, sguardo altrove, movimenti incespicanti e talvolta buffi, mani incrociate, parlata monocorde, e così via. Essendo l’autismo uno spettro dalle sfaccettature infinite, non ha senso definire la fedeltà della rappresentazione in senso stretto, possiamo comunque rilevare che, anche in questo caso, i due ricorrono ad elementi piuttosto stereotipizzati.  
Il personaggio del dottor Shaun Murphy interpretato Highmore riesce in qualche modo a farsi amare maggiormente dell’Avvocata Woo, nonostante lo vediamo più volte entrare in contraddizione con se stesso attraverso atteggiamenti e reazioni ben diverse da una puntata all’altra: talvolta è infastidito da elementi irrisori, talaltra non se ne cura, continua ad parlare della sua vita privata con i colleghi nonostante sia stato stabilito in precedenza che è in grado di capire ciò che è sconveniente e ciò che non lo è. Diciamo che la sua onestà viene utilizzata un po’ come pretesto per farlo risultare buffo e più fuori luogo di quanto sì supponga debba essere. Il suo passato è estremamente doloroso, gli episodi in cui cerca di elaborarlo sono tragici e duri. La relazione tra Shaun e Lea descrive bene le incertezze le difficoltà ed il reciproco senso di inadeguatezza che può derivare da un tipo di rapporto del genere. Ma, mentre in Avvocata Woo emergeva chiaramente ed in maniera più netta, ad esempio, l’interessante l’aspetto dell’assenza di “teoria della mente dell’altro”, in merito alle relazioni, qui la questione è meno preponderante. 
I comprimari della serie hanno personalità definite ed interessanti, Aaron Glassman (Richard Schiff), il mentore e padre adottivo di Shaun, nonché ex direttore dell’Ospedale; Lea di Lallo (Paige Spara), amica prima, fidanzata in seguito; e tutti i colleghi, dai carismatici capi chirurgo Lim, Mendelez ed Andrews, i colleghi apprendisti: dott. Reznick, Brown, Park, sino alle nuove new entry, Jordan e Wolke. Non sono adorabili come quelli di Avvocata Woo, ma risultano più complessi e sfaccettati. Inutile dirlo, alla fine ci si affeziona a tutti. 
Come accade in serie corpose come queste, è possibile individuare varie fasi, definite dalla dipartita di alcuni personaggi storici, e dall’inevitabile introduzione di nuova linfa, personaggi che vengono, in qualche modo “testati” sul campo: se li vedete scomparire dopo quattro o cinque puntate, beh, potete intuire che non hanno incontrato il gradimento del pubblico. Nella quinta stagione subentra un aspetto interessante anche a livello sociale: la privatizzazione della sanità e lo sfruttamento dell’immagine di personale autistico a scopo promozionale. L’ospedale viene infatti acquisito da una multinazionale che procede ad effettuare tagli scellerati, ed il dottor Murphy viene utilizzato come testimonial dell’ospedale. In seguito diviene addirittura protagonista di un reality. Si entra dunque in una dimensione meta cinematografica che contribuisce ad alzare l’asticella e l’ambizione della serie. 

Move to Heaven di Yoon Ji-ryeon, 2021  

Torniamo in Corea, e troviamo un giovane ventenne nello spettro (Tang Jun-sang), appena rimasto orfano del padre, con il quale lavorava in società in uno strano business: i due si occupavano di ripulire e liberare le stanze dei defunti dai loro averi ed effetti personali, tale attività veniva definita “Pulizia del Trauma”. Il padre muore e arriva lo zio (Lee Je-hoon): un ragazzo dai modi bruschi, un passato difficile alle spalle, e apparentemente animato da intenti poco rassicuranti. Nominato tutore provvisorio, passerà i successivi tre mesi assieme al nipote. L’evolversi di questa relazione, come facilmente prevedibile, renderà entrambi persone migliori. 
La serie si guarda con piacere e riesce a dare una prospettiva interessante: il protagonista fa leva sugli aspetti peculiari della sua condizione per adattarsi, e non solo ci riesce, ma riesce anche in qualche modo a “insegnare” il mestiere allo zio. 
Certo, pare che la vicenda si svolga in una realtà sin troppo trasognata, i buoni sono semplici e burberi solo in apparenza, i malvagi sono spietati e senza cuore, ma il tono possiede una delicatezza che troviamo tra le più appropriate ed adeguate al racconto in questione: abbiamo riscontrato che sono sempre molto rari i momenti in cui si cerca di osservare semplicemente l’interiorità del protagonista, senza spiegarla od illustrarla, lasciando solamente una lieve suggestione sedimentarsi nello spettatore. Move to Heaven non è la serie migliore tra quelle prese in analisi, ma è l’unica che possiede questo grande merito.  
Uno dei casi di “pulizia del trauma” che i due si trovano ad affrontare tenta anche, con delicatezza e discrezione, di illustrare un episodio di omosessualità, tematica ancora alquanto tabù e delicata in Corea.  
I vari casi si intrecciano bene con lo sviluppo delle vicende dei protagonisti, il ritmo talvolta meditabondo è ben stemperato dalla componente thriller riguardante lo zio ed il passato che continua a perseguitarlo. 

As we See it di Jason Katims, 2022 

C’è molto materiale sui bambini autistici, ma l’idea di adulti con l’autismo è meno esplorata. 
Queste le parole di Jason Katims, il cui figlio Sawyer, 23 anni, è nello spettro autistico. 
Katims aveva già illustrato la sua esperienza personale nel suo lavoro precedente – nella serie tv Parenthood si raccontava la complessità di crescere un figlio con autismo ad alto funzionamento. La passione, l’interesse e la sensibilità di Katims per la tematica sono una risorsa preziosissima, quando il suo agente gli parlò di una serie israeliana, On the Spectrum, mandandogli tre episodi da guardare, si fece strada l’idea per un remake. Così nacque As we see it. 
Tra quelle prese in esame è sicuramente la serie che più di ogni altra tenta di dare una rappresentazione viva e realistica della condizione di chi si trova all’interno dello spettro autistico. E non lo diciamo per il motivo più banale – i tre protagonisti sono effettivamente persone nello spettro anche nella vita reale – ma perché il modo di porsi, muoversi, parlare, dei tre attori scardina finalmente tutti gli stereotipi delle serie precedenti, mettendo a nudo atteggiamenti utilizzati come semplice maschera di una condizione che non può essere ridotta ad una serie di vezzi.  
Gli atteggiamenti esteriori, utilizzati in altre serie come escamotage fin troppo banale per rappresentare l’autismo, hanno prodotto l’esigenza e la necessità di affermare che no, non necessariamente si battono le mani sulla testa, evitano lo sguardo, parlano in modo convenzionalmente monocorde, e tanti altri piccoli aspetti peculiari ed idiosincratici che vengono appioppati indiscriminatamente quando si tratta di rappresentare la neurodivergenza. 
I tre protagonisti convivono in una residenza assieme a Mandy, loro educatrice/operatrice di sostegno, cercando di fare funzionare le loro vite. I loro problemi sono diversissimi tra loro, Harrison lascia a malapena l’appartamento, mentre Jack ha un lavoro come programmatore e Violet lavora in un fast-food.  
Ognuno ha differenti obiettivi, concordati con Mandy, che dovrebbe cercare di raggiungere ogni settimana: fare nuove amicizie, chiedere come si sente un parente di fronte a una situazione emotiva difficile o raggiungere il Fast-Food più vicino senza cadere in preda al panico. 
Questi tre non si piacciono tra loro, nemmeno un po’, e le loro interazioni sono estremamente esilaranti nonché illuminanti.  
Peccato che le vicende di contorno, lo scarso carisma del personaggio di Mandy, ed i comprimari non siano all’altezza dei tre protagonisti. Questo è un po’ il punto debole della serie, che avrebbe però meritato a mani basse una seconda stagione. Invece, purtroppo, As we see it è stata cancellata dopo la prima stagione. Forse al pubblico americano non piace più guardarsi troppo da vicino: l’ordinarietà dei personaggi, certi aspetti, anche sgradevoli, come la vigliaccheria, la ferocia e l’ottusità del mondo esterno, lasciano l’amaro in bocca. Strano però, storicamente, il cinema americano, specialmente dalla New Hollywood in poi, è sempre stato lucidissimo nell’autocritica. Forse la critica viene accettata dal pubblico solo attraverso il filtro della metafora o dell’iperbole, forse il paradigma della serialità potrebbe aver cambiato le carte in tavola, forse lo slogan dell’inclusività stavolta ha penalizzato un prodotto invece di promuoverlo.  
O forse stiamo speculando invano, dato che non sono state rilasciate dichiarazioni sulle ragioni della cancellazione. 

On the Spectrum

Purtroppo l’originale israeliana On The Spectrum (2018), di Dana Idisis e Yuval Shafferman, acclamata dalla critica e vincitrice di diversi premi, di cui As we see it è effettivamente il remake, non è attualmente reperibile in Italia, non ci è possibile dunque procedere ad un confronto tra le due. 
Piccola parentesi, Israele si è rivelata negli anni straordinaria fucina di concept originali ed innovativi, specialmente per quanto riguarda le serie Tv. Qualche esempio: La popolarissima In Treatment, riadattata in decine di versioni, Homeland, Euphoria, The Good Cop, tutti riadattamenti presi da serie TV Israeliane. 

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Per completezza, concludiamo con qualche menzione speciale di Serie tv che negli ultimi anni hanno trattato la tematica della neurodivergenza, dato prospettive interessanti, e contribuito, nel bene e nel male, ad arricchire il panorama. 
Potremmo individuare in The Bridge di Hans Rosenfeldt, come prima serie in assoluto (siamo nel 2011) con un protagonista autistico, anche se non viene dichiarato apertamente dalla serie. 
L’americano Everything’s Gonna Be Okay, vede come protagonisti due fratelli nello spettro dell’autismo, così come Il coreano It s ok not to be ok. 
Il reality australiano Love on The Spectrum vede come protagonisti soggetti autistici alle prese con il mondo sentimentale fatto di appuntamenti romantici. 
Il toccante The A word di Peter Bowker (2016), infine, segue le vicende di una famiglia, a seguito della scoperta della condizione autistica del figlio di cinque anni. Si tratta, anche in questo caso, del remake della serie israeliana Yellow Peppers (Pilpelym Tzehubym) creata da Keren Margalit. 
Diamo infine qualche riferimento per quanto riguarda la reperibilità delle serie prese in esame: 

Atypical – Netflix 
The Good Doctor – Netflix 
Move to Heaven – Netflix 
As we See It – Prime Video 


Si ringrazia, per la consulenza e la premessa: Dr. Francesco Tamagnini, Lecturer in Pharmacology, University of Reading, School of Pharmacy, Whiteknights Campus, Reading, RG6 6LA, United Kingdom 

 

 

 

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