Cercare una possibilità, uno spazio, una dimensione in cui far incontrare le esigenze e le istanze della realtà con le modalità di una messa in scena più mediata dal racconto di finzione sembra essere il punto nevralgico intorno al quale il cinema del reale – nell’accezione pur larga e talvolta problematica che questa definizione contiene – si misura con il proprio senso, e si apre a un orizzonte sempre più espanso. Ed è anche una delle questioni affrontate da un autore come Leonardo Di Costanzo, la cui esperienza è stata tra le più emblematiche nel confrontarsi con la realtà e le sue forme di rappresentazione, durante l’incontro tenutosi all’interno dell’ultima edizione del PERSO, manifestazione giunta alla decima edizione e organizzata a Perugia, ormai luogo di riferimento e crocevia di visioni e condivisioni dentro i mille piani dell’immagine documentaria.
In un dialogo con il pubblico moderato dal direttore del Festival Giovanni Piperno, Di Costanzo ha parlato nello specifico del graduale passaggio compiuto dal documentario (l’esordio con Prove di stato del 1998) al cinema di finzione (L’intervallo nel 2012), fino alla sua ultima opera, Ariaferma (2021) nella quale in particolare il lavoro sugli attori/personaggi, cosi centrale nel processo di realizzazione dei suoi film, si confrontava più direttamente con lo status “professionale”, peraltro fortemente caratterizzato e identificabile, di interpreti quali Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane. La decisa svolta nello spostamento della sua prospettiva, Di Costanzo la colloca comunque in un tempo e in un film precisi, emblematicamente riassunti fin dal titolo: Cadenza d’inganno (2011), nel quale la necessità del regista di filmare la vita “così com’è” di Antonio, un bambino di dodici anni proveniente da un quartiere difficile e marginale di Napoli, corto circuita con il rifiuto del ragazzino di essere ripreso nella quotidianità della propria esistenza, un negarsi allo sguardo rivendicato nello smarrimento e in parte nella vertigine della sparizione dalla scena.
Il paradosso che emerge dal racconto di Di Costanzo rispetto alla situazione nella quale si è ritrovato in quella determinata circostanza risiede allora nell’elemento imprevedibile emerso non solo dalla realtà in sé , campo continuativamente aperto a inciampi, slittamenti e digressioni, ma alla volontà di un soggetto che vuole scegliere quando e come farsi rappresentare, capovolgendo, o comunque mettendo fortemente in crisi, una dinamica di primato e di potere nel rapporto tra sguardi; lo smascheramento, nel letterale significato di far cadere la maschera così simbolicamente legata al concetto di rappresentazione, di una parvenza di controllo che ha a che fare con i limiti, le frizioni e le contraddizioni dell’aspetto relazionale, imprescindibile da una certa visione e da una certa pratica di interrogare e cercare di comprendere la realtà: fino a quanto è possibile avvicinarsi e quanto rischio c’è nel distanziarsi? quanto dura e può proseguire lo spingere il tasto rec sulla videocamera prima dell’interruzione/sospensione? (anni dopo Antonio ricontatterà il regista, chiedendogli di venire a filmare il suo matrimonio, scegliendo lui stesso questa volta il tempo, il momento, la situazione della sua rentrée in scena).
L’acquisizione da parte di Di Costanzo di questa consapevolezza segnerà la transizione verso un cinema di scrittura che in parte è ancora e comunque una riscrittura della realtà: riferendosi alla scelta degli attori non professionisti in particolare per L’intervallo e L’intrusa, il criterio con il quale avviene la selezione è in parte la corrispondenza parziale della storia dell’attore con quella del personaggio che è chiamato ad interpretare. Non si tratta, e non ci si limita, a un fattore basicamente biografico, ma si cerca un accesso più profondo, una risonanza, un contatto dentro cui l’esplorazione di un’intimità emotiva- intrecciata spesso a traumi e violenze in considerazione del peso specifico degli eventi raccontati-si manifesta nello scarto impercettibile e sensoriale tra verità e trasfigurazione, laddove, secondo Di Costanzo, non è più possibile (a livello relazionale, etico ed estetico) accedervi con l’immediatezza a volte brutale del linguaggio documentario. Anche i tre film proposti dal Festival prima dell’incontro offrono un confronto significativo con una personalità cosi mossa e vibrante tra le pieghe, le sfumature e le declinazioni del reale abbracciato nell’ampia concezione del cinema tout court e delle sue continue riformulazioni: a partire da A scuola (2003), probabilmente la più straordinaria testimonianza su cos’è e come viene portato avanti, tra fragilità e resistenza, slanci e rigidità, il sistema educativo in Italia: un’esplorazione interna e aderente, senza giudizio e senza forzature, al corpo docenti e studenti di una scuola media situata in una zona socialmente molto problematica del territorio napoletano.
I corpi/voci/volti degli insegnanti e degli alunni non hanno ancora filtri, c’è la presa diretta e il dinamismo di una mdp che vuole seguire e cogliere ogni parola, umore, confronto, o più che altro scontro, che attende di sciogliersi in un momento di comprensione e di riscatto, fino alla fine dell’anno e a quel segno sul foglio bianco- ammesso o non ammesso- che può illuminare un sorriso di soddisfazione o sfumare in un impeto di rabbia e di desolazione. L’intensità condensata e poi esplosa nelle immagini, alla quale Di Costanzo è arrivato attraverso l’atto del riprendere con concentrazione, attenzione e ascolto per quindici minuti al giorno, ogni giorno, e che restituisce le tensioni vitali e conflittuali di un contesto abbandonato spesso alla propria condizione di istituto/istituzione, di realtà altra e isolata dall’esterno.
La riflessione sugli spazi chiusi e perimetrati come espressione di una disfunzione comunicativa, identitaria e relazionale è ancora più radicale in Odessa, una co-regia con Bruno Oliviero (poi sceneggiatore di Ariaferma ) dove l’incredibile vicenda di un gruppo di marinai ucraini abbandonati per anni su una nave da crociera bloccata nel porto di Napoli viene affrontata non solo nelle sue implicazioni di grottesco affaire politico ed economico, ma soprattutto nel sondare la profondità e la dignità della disperazione di un gruppo di uomini umiliati ed esclusi, sospesi in un non luogo sul quale cercano di lasciare lo spessore della loro presenza, dell’esserci stati non solo come equipaggio fantasma, di passaggio, residuo di una transazione. A tratti Odessa si fa cinema di poesia, in particolare nelle struggenti sequenze di canto e di ballo dei marinai che, presagendo l’impossibilità di tornare a casa, è come se celebrassero già una sorta di cerimonia funerea, un accorato requiem ( fino al mostrare una persona morta in una bara aperta che lascia sconcertati e fa ritornare alla questione sollevata da Di Costanzo sui confini di ciò che è filmabile “dal vero”).
Protomi di una poetica che si riallacciano a L’intrusa, seconda opera completamente di finzione e forse ingiustamente trascurata: il racconto – la giovane moglie di un boss della camorra trova rifugio con i due figli in un centro ricreativo per bambini- non segue la linearità del realismo da fatto di cronaca dal quale potenzialmente proviene; c’è soprattutto uno dei più toccanti incontri tra donne – la ruvida ma leale e generosa responsabile del centro, l’orgogliosa ragazza e l’ inizialmente scontrosa bambina più grande – visti nel recente cinema italiano, avarissimo di presenze femminili così complesse e potenti; non più definite esclusivamente dalla loro appartenenza sociale e culturale, che creerebbe, sotto le pressioni di una comunità segnata (siamo sempre in una Napoli di confine), solo separazione e incomunicabilità, queste donne si capiscono nell’espressività di un primo piano silenzioso allo specchio o davanti a una finestra, nel poter far emergere a fior di pelle sensazioni, desideri e una cognizione del dolore e della perdita propri e altrui. Materia viva e pulsante che tocca un’opera affine per modus operandi, sottigliezza e fecondo rapporto con la realtà come Vittoria di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman , attualmente in sala, con al centro ancora una donna e il proprio viaggio interno ed esterno verso la maternità: anche qui c’è una storia vera, ma rielaborata e riformulata, di un affido che parte da una premonizione e da un sogno, includendo una dimensione onirica, evocativa, simbolica che sottrae la protagonista Jasmine dal determinismo del dato realistico, del quale rimangono comunque la precisione del dettaglio e della collocazione spazio-temporale, e la proietta nella condivisione di un immaginario, di un’aspettativa, di uno scoramento e della sua catarsi.
Sull’afflato comune della poetica di Di Costanzo, potremmo dire allora che è molto più bello un verosimile che possiede il ritmo della vita vissuta, piuttosto che un vero diluito nella cadenza di un inganno.