Festa del Cinema di Roma: Rapiniamo il Duce di Renato De Maria (Grand Public)

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Questa è storia vera.

Questa storia, quasi.

Ci deve essere sempre un senso del limite. Se non artificiale, quindi legato al senso del gusto, almeno fisiologico. Lo si è capito per l’ultimo James Bond, seppur in ritardo di almeno due film, non lo si è evidentemente capito per il Tarantino di Inglorious Bastard (2009). Perché se Freaks out (2020) era un film che faceva da apripista in Italia di quei blockbuster che – per citare Pietro Castellitto – quando una piazza la devono far esplodere, ecco, la piazza la fanno esplodere, e ne mescolava la postmodernità di Tarantino nonché un discorso sugli ultimi avviato con Lo chiamavano Jeeg Robot (2015), ciò che viene dopo dovrebbe avere imparato una lezione: la copia si può fare, la copia della copia pure, la copia della copia della copia forse meno perché dalla binomio serietà-comicità si rischia di passare alla parodia e oltre la parodia c’è la meccanicità che si aggrappa ai singoli comici. Che non sono personaggi comici e quindi costruiti, sono comici di per sé messi in pellicola.

Rapiniamo il duce di Renato De Maria è un film che funziona laddove copia spudoratamente, ma funziona portando con sé la stanchezza non tanto del già visto, ma dell’abusato. Laddove non copia si perde, e quando si perde procede per strappi che sono tanto evidenti da poter esser perdonati i primi, meno gli ultimi perché si cade nello scontato. Se si vuole guardare non tanto il bicchiere mezzo pieno quanto il bicchiere, il lavoro dà comunque occasione per una riflessione strettamente legata all’ideazione Netflix del prodotto. Ma la si posticipi, prima la trama.

Ultimi giorni della Guerra, Milano. Pietro Lamberti (Pietro Castellitto), alias Isola, è un ladro che ruba ai fascisti per rivendere ai partigiani. È innamorato di Yvonne (Matilda De Angelis), femme fatale contesa da Isola e da Borsalino (Filippo Timi), capoccia agli ordini del duce. Isola non è solo nel suo lavoro, fa parte di una banda composta da Marcello (Tommaso Ragno) e Amedeo (Luigi Fedele). La banda però è destinata ad allargarsi. Amedeo intercetta un messaggio che rivela la posizione del tesoro del Duce prossimo a fuggire in Svizzera e Isola vede l’occasione di una vita perché

Nessuno è più forte della storia. Forse sì, ma forse no.

La squadra si allarga. Serve un bombarolo (Giorgio Antonini) e un autista (Maccio Capatonda) e poi è necessario agire: prima che l’oro se ne vada, prima che loro possano essere scoperti.

Lassù c’è solo la Madonina dorata e integra che guarda la città meneghina ridotta a una groviera. Il filtro è quello un po’ dark e un po’ metallico che dà sapore di film d’azione, sostenuto da una efficace fotografia, da una sufficiente CGI e buone scenografie. Le maestranze, insomma, fanno un buon lavoro per rendere l’atmosfera credibile, e sono apprezzabili le citazioni varie, da Sergio Leone a Monicelli. Poi c’è il lavoro sui personaggi e sulla sceneggiatura, e il bagno pop a riguardo.

È infatti il pop quello che regna. Un pop che però va oltre il consapevole e trasborda nello spreco e non permette ai personaggi di adottare una personalità capace di attrarre perché il recinto è quello dello stereotipo. Pietro Castellitto è l’unico che ha più spazio di azione perché è il personaggio protagonista, mentre Matilda De Angelis impersona una femme fatale anomala, donna che non ha interessi suoi – la sopravvivenza – bensì interessi altrui, quelli di Isola e non solo. È una figura diversa da ciò che ci aspetteremmo, e certo perde slancio rispetto alla femme fatale solita, però la sua voce regala dei bei momenti, uno in particolare azzeccato sulle note di Amandoti (amami ancora). Giusta anche la scelta delle altre musiche (Se bruciasse la città), che nella loro anti-storicità portano una bella ventata e spingono positivamente il film. Si arrivi poi a Maccio Capatonda.

Maccio Capatonda funziona e questo, in effetti, è indicativo e permette di introdurre quanto si diceva. Maccio Capatonda fa effettivamente ridere ogni volta che apre bocca o fa qualcosa, tanto perché Maccio fa ridere in quanto Maccio tanto perché il suo personaggio, in effetti, ha una buona caratterizzazione. Come anche alcuni degli altri che riescono a uscire da alcuni stereotipi e acquisiscono caratteristiche prese qua e là, chi si lega ad ideali anarchici e chi ad altro. Tuttavia Maccio Capatonda è indicativo di una sceneggiatura che funziona quando c’è il cantato e l’azione (a parte le sparatorie spesso fini a se stesse), ma fatica tantissimo quando c’è il parlato, davvero parecchio, oltre quello che ci si potrebbe aspettare da una pellicola d’azione. Appena il tono diventa pseudo-serio da scanzonato che era, ecco chr non vi si riesce a crederci né ad appassionarsi: s’intuiscono nell’immediato quali saranno le frasi spese e le parole dette. E si arriva così al discorso posticipato.

A guardare il bicchiere intero, il pieno e il vuoto, e quindi leggendo il lavoro come un prodotto Netflix, viene da riflettere sulla deriva che la pellicola ha in direzione non tanto del grande schermo, quanto del piccolo. Spieghiamoci: pare che Rapiniamo il duce non sia affatto pensato per essere visto al cinema bensì direttamente in televisione e in un ambiente nel quale l’attenzione non deve essere tenuta altrettanto alta. In un contesto, chiamiamolo, informale di visione, nel quale perdersi un passo, distrarsi per il tempo di una chiamata o di altro, può essere consentito e accettato allo stesso modo di quando magari si sta vedendo una serie tv. O meglio, alcune serie tv, quelle ricorsive.

Insomma, se le serie tv stanno assumendo la serietà dei film, non può essere che anche i film stiano prendendo l’informalità delle serie tv proprio per la loro destinazione sul piccolo schermo? Un avvicinarsi di poli. E quindi ci si chiede: i film nati per la televisione possono considerarsi film o sono tipi di film differenti? Dopotutto, è come viene fruito il prodotto che determina il prodotto stesso. Insomma, riflettiamoci. Intanto, quel bicchiere, pieno o vuoto che sia, beviamocelo.

Dal 26 ottobre su Netflix.


Rapiniamo il duceregia: Renato De Maria; sceneggiatura: Renato De Maria, Federico Gnesini, Valentina Strada; fotografia: Gianfilippo Corticelli; montaggio: Clelio Benevento; musica: Yann McCullough; scenografia: Giada Calabria; interpreti: Pietro Castellitto, Matilda De Angelis, Tommaso Ragno, Isabella Ferrari, Maccio Capatonda, Luigi Fedele, Coco Rebecca Edogamhe, Maurizio Lombardi, Lorenzo De Moor, Filippo Timi, Giorgio Antonini, Alberto Astorri, Eugenio Di Fraia, Antonio Scarpa, Enrico Bergamasco, Giovanni James Bertoia; produzione: Netflix; origine: Italia, 2022; durata: 98’; distribuzione: Netflix.

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